Corriere della Sera, 30 maggio 2019
Perché non sappiamo invecchiare
«Perché dobbiamo tutti essere belli?». E costretti ad esserlo, per sempre? Se l’è domandato sul New York Times la scrittrice irlandese Megan Nolan. «Quando ero giovane, volevo essere bella così disperatamente da sentire il sapore di quel desiderio, ed era sapore di sangue. Era un duro, doloroso desiderio (...). Essere bella voleva dire avere potere sugli altri», ha scritto la commentatrice che firma anche per il Guardian e ha una rubrica sul New Statesman. Aggiungendo, come una liberazione: «Adesso per la prima volta sto cercando di capire che non devo esserlo. Ho cercato di volermi bene mano a mano che sono invecchiata».
L’autunno di Greta GarboNon è stato così per quella che la «Grey old lady di New York» – il soprannome che da sempre accompagna il New York Times — chiamava nel settembre del 1985 «The elusive Garbo». Già, lei Greta Gustafsson diventata sul set Garbo, il mito e l’icona del cinema, invecchiando anziché imparare a volersi bene iniziò a odiarsi. Tanto da preferire una vita da reclusa, mentre gli appuntamenti con il palcoscenico si facevano più radi e alla sua bellezza, sulla via del tramonto, Hollywood iniziava a preferire nuovi e più freschi talenti del ciak.
Così la Garbo scelse di invecchiare lontano dai riflettori, dal mondo che guarda. In perfetta solitudine. E quel giorno di settembre del 1985 Dena Kleiman scriveva infatti sul quotidiano americano che «non c’era traccia di lei alla libreria all’angolo dove spesso lei si ferma. I mogul del cinema si sono stancati da tempo di inseguirla. Non aveva idea di dove potesse essere neppure il Console svedese. Era l’ottantesimo compleanno di Greta Garbo, ieri, e da tutte le indicazioni, la sfuggente star l’ha trascorso, proprio come sognava, da sola».
«Vuole restarsene da sola», confessò poi il conte Wilhelm Wachtmeister, l’ambasciatore svedese negli Usa aggiungendo che Miss Garbo forse era in Svizzera. Insomma, un enigma.
In effetti il mondo del cinema è stato forse il più crudele verso la bellezza che invecchia. Come la Garbo tante altre divine del set si videro confinare frettolosamente in un angolo, alla comparsa delle prime rughe. Il passaggio dal cinema muto al sonoro, fu l’ennesima scusa per giustificare un cambio di scena che non prevedeva «ciak» per le star di ieri.
Lo sapeva bene Grace Kelly, la ragazza premio Oscar divenuta principessa. Proprio alla «Divina» Garbo, a metà degli anni 60, Grace tese una mano e offrì un aiuto concreto come aveva fatto, in silenzio e senza clamore, anche con altre bellezze sfiorite che si apprestavano a finire l’esistenza in miseria: per esempio Josephine Baker. E leggere le lettere che la Garbo indirizzò, come ringraziamento, alla principessa, svela tutta la dimensione di solitudine di tante attrici rassegnate alla bellezza del corpo che se ne va. «Dear Little Princess, non potrà mai immaginare quanto io sia stata toccata dalla sua lettera. E la vostra offerta nei miei confronti è incredibilmente gentile e affettuosa» scriveva la Garbo. Per poi confessare tutto il suo isolamento, la chiusura al mondo in quel lungo tramonto: «Non ho avuto molto a che fare con gli esseri umani da tempo».
«Invecchiare è fallire»In fondo, «To age is to fail», invecchiare è uguale a fallire, ha scritto il Guardian. Ai tempi dell’ultima Garbo come oggi, coniando un nuovo comandamento – «Thou shalt not age», tu non invecchierai mai. E invocando: «Per favore smettetela di considerare l’intero processo naturale dell’invecchiamento come un crimine». Nulla di che stupirsi dunque se la divina Greta nel 1944, tre anni dopo il suo ritiro, manifestò il desiderio di tornare sullo schermo interpretando «Il ritratto di Dorian Gray», come ha ricostruito Tullio Kezich. L’amico più stretto della diva avvicinò Albert Lewin, il produttore di Hollywood, per dirgli che Greta avrebbe voluto interpretare la parte di Dorian. Era questo infatti il solo personaggio per il quale avrebbe accettato di tornare al cinema.
Dorian, il protagonista del grande romanzo gotico Il Ritratto di Dorian Gray pubblicato nel 1890 da Oscar Wilde, è infatti il simbolo della rincorsa dell’eterna bellezza. Stessa bellezza eterna inseguita anche dalla «mitica» Contessa di Glanegg evocata dal Vate D’Annunzio ne Il Fuoco. «Conoscete, Stelio, la casa chiusa della Calle Gàmbara?» domanda nel romanzo la Foscarina. La casa della contessa di Glanegg è la dimora di «una tra le più alte dame della nobiltà viennese, forse la più bella creatura ch’io abbia mai incontrato in terra (...). Ella ha voluto rimaner tale nella memoria di chi l’aveva vista risplendere – scrive D’annunzio —. Quando in un mattino troppo chiaro si accorse che era venuto per lei il tempo di sfiorire, risolse di accomiatarsi dal mondo perché gli uomini non assistessero al deperimento e allo sfacelo della sua bellezza illustre».
Al contrario, c’è chi ha scelto di vivere senza complessi. E, in premio, adesso assapora la serenità di una bellezza naturale che apparentemente non invecchia, come la cantante Gigliola Cinquetti. «Io, sempre una ragazza come ai tempi in cui cantavo “Non ho l’età”? Diciamo che mi sento ragazza nel senso di donna moderna, quello sì, e con convinzione. Non ho mai accettato il modello di signora, quello è obsoleto per me, come tutte le suggestioni di finta eterna bellezza che offre l’appuntamento dal parrucchiere... come il passaggio in profumeria. Fosse per me potrebbero chiudere tutti, vado dal parrucchiere una volta al mese e mi basta. Ma non mi sento per questo meno bella, sono bella nella mia età».
Gioco pericolosoEppure c’è chi non si accontenta della bellezza che si adegua allo scorrere del tempo, cambia, si trasforma, senza per questo svanire. E c’è persino chi riesce ad afferrare il traguardo dell’eterna giovinezza. Almeno in letteratura. Si chiama Betty ed è la protagonista del romanzo francese che solo Oltralpe ha venduto oltre 2 milioni di copie, La donna che non invecchiava più, (edito in Italia da DeaPlaneta e in Francia da JC Lattès). «I cinque ritratti erano posati sul tavolo (...). Guarda, è lo stesso viso ripetè Fabrice. Lo so. Voglio dire, lo stesso Betty, esattamente lo stesso (...). È come se il tempo non avesse presa su di te». A metà racconto ecco svelata la «magia» della bellezza di Betty: la donna smette di invecchiare. «Volevo provare a raccontare con un romanzo la strana schizofrenia dei nostri tempi», spiega al Corriere l’autore, Grégoire Delacourt. «Da un lato invochiamo la liberazione del movimento #MeToo, dall’altro la pubblicità e la società chiedono alle donne di essere eternamente giovani, belle, senza rughe. In realtà, il meraviglioso sortilegio di bellezza di Betty si rivela presto portatore soltanto di infelicità». Perché? «Perché il figlio non la riconosce più come madre, mentre lui cresce lei assomiglia piuttosto alle sue coetanee... e il marito, che invecchia, non riesce più a dialogare con una donna rimasta cristallizzata nella sua eterna gioventù».
Una lezione per chi pensa che la bellezza debba essere per sempre? «Una schizofrenia, una follia». E a proposito di differenze d’età, la Première Dame all’Eliseo, Brigitte Macron, vive invece il contrario della coppia Sarkozy-Carlà. O sbaglio? «È anche grazie a Brigitte Macron se, oggi, le donne mature che si accompagnano a un ragazzo in Francia non sono più etichettate femme cougar, modo spregiativo di indicare chi aveva il coraggio di far coppia con qualcuno più giovane. Anche questa è una conquista dell’età».
Il nuovo vocabolarioDelacourt è arrivato alla scrittura dal mondo della pubblicità. E a proposito di pubblicità, Zoe Williams sul Guardian ha scritto che il termine anti ageing ormai è diventato fuori moda nell’industria della bellezza. Semmai è stato trasformato in pro skin, a beneficio della pelle, o anti wrinkles, anti rughe. Quello che Williams definisce un «nuovo vocabolario di rinnovamento, rigenerazione e luminosità della pelle». Salvo ammettere che la sostanza non cambia molto: se non si parla più di anti invecchiamento, i nuovi termini continuano a far riferimento a «qualsiasi segno visibile dell’età come a qualcosa di disgustoso in una donna, sia che si tratti di una ruga o del grigiore risultato dall’aver vissuto».
E mentre nel 2018 continuiamo a interrogarci davanti allo specchio come la regina malvagia di Biancaneve – Specchio specchio delle mie brame chi è la più bella del Reame? – anche i regni – quelli veri, non della fantasia – del 2019 fanno i conti con la trappola seducente dell’eterna gioventù conquistata dalla vita media che si allunga. Così, da ultimo, ha detto addio al trono anzitempo l’imperato del Giappone. E prima di lui, Beatrice d’Olanda e re Alberto del Belgio. «Oggi concludo i miei doveri di imperatore», ha detto il 30 aprile scorso l’anziano Akihito che a 85 anni ha chiesto di potersi riposare, e abdicare. Basta impegni ufficiali, fine della costrizione alla perfetta rappresentazione della corona. Trecento dignitari hanno atteso nel palazzo imperiale l’ultimo ingresso di Akihito come imperatore. E lui, con accanto la moglie Michiko, ha concluso il suo mandato, per passare la mano al figlio Naruhito.
E che dire, infine, del nuovo Mantra dell’inclusione? Per la scrittrice Megan Nolan, è l’ennesimo tranello ingannatore: dire che «tutti possono essere belli» nasconde la solita trappola del mito dell’eterna bellezza: «Sono sempre più convinta che questo messaggio sia pericoloso. Non sarebbe davvero liberatorio ammettere piuttosto che la maggior parte delle persone non sono belle affatto»?