Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  maggio 30 Giovedì calendario

Intervista a Pietro Beccari, ceo di Dior

Arrivare al vertice di un’impresa è motivo di orgoglio, fa crescere l’autostima. Ma che cosa si prova a stare al timone di un mito? Pietro Beccari, 52 anni, se lo chiede ancora, un anno dopo la nomina a presidente e Ceo di Dior. Perché Dior è più di un marchio del lusso. Un po’ come una Ferrari, seduce anche chi non la possiede. Un mito appunto. 
«In verità, mi sono chiesto che cosa penserebbe Christian Dior nel sapere che le sorti della sua creatura – un marchio, un’idea tutta francese – sono affidate a un italiano, cresciuto in un paesino della campagna di Parma, Basilicagoiano. Il ricordo del luogo da cui si è partiti e il fatto di essere italiano sono motivi d’orgoglio, ma aiutano a tenere i piedi per terra. Ci si sente compensati di sacrifici e scelte talvolta coraggiose, e si rimane ancorati alle proprie radici. Ci ritorno spesso con mia moglie. Qui abbiamo restaurato un vecchio granaio e qui ritroviamo gli amici di sempre...». 
L’accento risente delle origini, nonostante gli anni in giro per il mondo. Suona di bonaria semplicità, rapporti cordiali, buona tavola, calma, anche se si lavora quindici ore al giorno, si cavalcano fusi orari e si dorme poco. 
«In effetti, ho sempre dormito poco. A Parma andavo al liceo classico in corriera. Mi alzavo alle quattro per fare i compiti. Al pomeriggio allenamenti, nelle giovanili del Parma». 
Il calcio è la prima passione di Beccari. Centrocampista, portato in prima squadra da Arrigo Sacchi. Giocò contro la Juventus di Platini. Perché decise di cambiare strada? 
«I miei genitori mi spingevano a continuare gli studi. E avevano ragione. Sacchi mi fece capire che non ero predestinato. Ma il calcio mi ha dato moltissimo. Educa al sacrificio, allo spirito di squadra, a non arrendersi mai. Sono concetti che ti accompagnano ogni giorno. E li ripeto alla mia squadra. Non voglio dipendenti, ma piccoli e grandi alchimisti, persone creative che facciano valere le proprie idee». 
Una frase di Sacchi è che nel calcio, come nella vita, ci vogliono talento, astuzia e fortuna. Lui definiva la fortuna in altro modo, ma il concetto è chiaro. 
«La fortuna conta, sono i centimetri che fanno andare il pallone sul palo o in rete. Ma bisogna saperla cogliere. È un treno che passa e spesso una volta sola. Per questo ho deciso di andare all’estero dopo la laurea in gestione aziendale. Prima gli Stati Uniti, nel New Jersey. Un posto alla Miralanza e alla Parmalat. Mia moglie, che era incinta della prima figlia, non ci pensò un attimo a seguirmi. E anche questo fa parte della fortuna, l’incontro con una persona che ti sostiene in tutte le scelte. Non è solo questione di stimoli, ma di condivisione. Del resto abbiamo cominciato a... condividere all’asilo di Basilicagoiano e ci siamo fidanzati al liceo». 
Che cosa le ha dato l’America? 
«Molta esperienza, apertura mentale, senso delle sfide globali. Avevo finito l’università, ma non pensai di fare un master. Il mio master è stato il campo. Lo ripeto ai giovani incerti sul proprio percorso. Certo, i master servono, ci mancherebbe. Ma è più importante ascoltare il cuore, assecondare passioni e attitudini, fare le cose con piacere, non fermarsi dopo le sconfitte. Amo leggere biografie. Non credo che Alessandro Magno o Giulio Cesare avessero già disegnato il loro futuro, ma sapevano dove andare». 
Perché decise di tornare in Europa? 
«Devo dire grazie al Corriere della Sera. Mia suocera mi segnalò un’inserzione, un’offerta di lavoro che accettai. Facemmo le valigie per la Germania, a Düsseldorf. Mi occupavo di marketing alla Testanera, un marchio della Henkel. Fu durissima. Bevevo un bicchierino di vodka prima di andare in ufficio, per farmi coraggio. Confesso che non parlavo una parola di tedesco, ma del resto non parlavo francese quando sono arrivato a Parigi. In azienda bastava l’inglese, nella vita di tutti i giorni fu più complicato». 
Poi il grande salto. La Francia. Il gruppo LVMH, un ruolo al vertice di Vuitton, vice presidente per marketing e comunicazione. Ha detto che si sentiva un manager/sandwich, con il patron Bernard Arnault sopra e il figlio Antoine sotto... 
«Non posso che esprimere gratitudine per come ho lavorato con loro, per il rapporto fiduciario instaurato, al punto da affidarmi Dior, che per Bernard Arnault non è soltanto uno dei marchi importanti del gruppo. È questione di cuore. Così come sono grato a chi mi ha voluto nella squadra. Yves Carcelle, un grande amico, purtroppo scomparso, e Toni Belloni». 
Fiducia ben ripagata. Dove arriva lei, i fatturati raddoppiano... Lei e Belloni siete ai vertici del più grande gruppo francese, così come molti manager e stilisti italiani hanno fatto carriera in Francia. Tuttavia, i francesi hanno fatto man bassa di marchi italiani. Significa che noi ci mettiamo il talento e loro il capitale? 
Non voglio dipendenti, ma piccoli e grandi alchimisti, gente che faccia valere le sue idee 
«La situazione è più complessa. Siamo i due Paesi che hanno portato nel mondo la moda, la cultura del bello, la creatività, il lusso. È un fatto storico di cui tutti dobbiamo essere orgogliosi». 
Eppure francesi e italiani si fanno i dispetti, a volte prevalgono pregiudizi. Chi vive da tempo in Francia, come chi scrive, li avverte. 
«È un simpatico derby, ma sulle cose sostanziali c’è rispetto e collaborazione. Se si riferisce alle polemiche politiche certo non fanno bene ai rapporti. Ma per fortuna passano e rimane la sostanza delle cose». 
È un fatto che grandi gruppi francesi (non solo nella moda) hanno fatto shopping in Italia... 
«Ci sono ancora grandi marchi italiani, così come ci sono talenti francesi che lavorano in Italia. La produzione è in gran parte in Italia. Sono fondamentali l’artigianato, il savoir faire italiano, la nostra duttilità e creatività. Produrre in Italia significa anche stipendi, posti di lavoro e tasse in Italia. Il rispetto delle origini qualifica il marchio, il rapporto fra il prodotto e il pubblico. Quando ho guidato Fendi, ho voluto rilanciare la “romanità” del marchio. Per questo Fendi ha sostenuto i restauri della fontana di Trevi e del Palazzo della Civiltà. I simboli, l’immaginazione, il senso di appartenenza sono fondamentali». 
Però con la simbologia non si comprano né Dior né Fendi. Il lusso tende a diventare necessità, ma pochi se lo possono permettere... 
«Ci sono sempre più ricchi nel mondo. Cinesi, innanzi tutto. Ma giapponesi, russi, americani, arabi continuano a essere buoni clienti. Dior va benissimo in Italia. Non è questione di potere d’acquisto. Potersi permettere un sogno è gratificante. E non dipende dallo stipendio. Altrimenti Dior non sarebbe un mito, ma un bene di consumo come tanti». 
Un mito che si compra anche online. Non dovrebbe essere più gratificante entrare in show room, farsi coccolare, sentirsi almeno per un giorno la Julia Roberts di Pretty Woman? 
«Christian Dior creò dal nulla la casa. Eravamo nei tempi bui del dopoguerra. La sua fu una sfida dell’innovazione. Creò il new look, come si diceva allora. È questo il segreto del successo. Tenere viva la tradizione, ma guardare avanti, altrimenti si diventa oggetti d’archivio. Il nostro compito è ritrovare ogni giorno lo slancio e la passione del fondatore. Le vendite online sono una conseguenza della globalizzazione e delle nuove tecnologie. Ci siamo adattati, ma attenzione: è il lusso che va a casa del cliente via smartphone, non è lo smartphone che entra nel lusso. Voglio dire che scelte, servizi, consegne, cura del dettaglio, tutto è personalizzato sulle esigenze del cliente che a volte preferisce casa propria alla boutique». 
La recente sfilata di Marrakech è stata un colpo mediatico. È iniziata la seduzione dei nuovi ricchi africani? 
«Non è stata soltanto un’operazione di marketing. Con la nostra direttrice creativa Maria Grazia Chiuri – un’altra italiana, sulle orme di Galliano e YSL – abbiamo scommesso su nuovi materiali, sull’artigianato locale, su nuove forme di creatività. Marrakech sarà capitale della cultura africana nel 2020. È importante che un grande gruppo del lusso sia attivo nella scoperta di nuovi talenti e valori ad altre latitudini. Dire che siamo tutti affacciati sul Mediterraneo non è un’immagine retorica, ma un invito a fare di più, ciascuno nel proprio ruolo». 
È un modo per restituire parte del tanto che si riceve? Quindi non è più d’attualità la frase, attribuita a Karl Lagerfeld, che lusso è libertà di spirito, ma anche politicamente scorretto? 
«Non è un fatto puramente solidale e tantomeno politico. Siamo convinti che l’industria del lusso abbia molti punti di contatto con la bellezza, l’arte, il mecenatismo, la cultura, l’impegno sociale. Per questo siamo impegnati nel restauro di importanti monumenti – l’ultimo intervento, la Queen’s House, la casa di Maria Antonietta, a Versailles – nel sostegno alla ricerca scientifica e medica, nelle grandi esposizioni, nella promozione di giovani talenti, nella difesa dei diritti delle donne». 
Beccari beve la seconda bottiglietta di acqua minerale e salta il pasto. «Così mi tengo in forma e guadagno tempo». In attesa di tortelli di erbetta appena può tornare nella sua Basilicag