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 2019  maggio 29 Mercoledì calendario

Ai Weiwei si mette all’Opera

La Traviata, che tre anni fa ha definitivamente fatto risplendere l’Opera di Roma, regia di Sofia Coppola e costumi di Valentino, è stato solo l’inizio della rinascita. La stagione 2019-20, con la nuova direzione musicale di Daniele Gatti, si annuncia anche più multidisciplinare e ambiziosa. Se anche il sovrintendente Carlo Fuortes farà il lungo volo verso la Scala per subentrare a Pereira, come si saprà con certezza a giorni (nel prossimo cda del 18 giugno: in corsa con lui anche Dominique Meyer della Wiener Staatsoper), avrà lasciato un segno forte nella capitale. L’evento clou della nuova stagione è un’idea pazza, già in cantiere. Una Turandot (debutto 24 marzo 2020) che resterà nell’albo d’oro della lirica accanto a quella di Zeffirelli: regia, scene e costumi di Ai Weiwei, il 61enne artista, designer, architetto e attivista cinese che si trasferì a New York nel 1981 e al rientro in patria affrontò un lungo periodo di detenzione per la sua opposizione al regime. «Il capolavoro di Puccini è legato a un immaginario europeo dell’Oriente ormai totalmente cambiato dai tempi del compositore», spiega Fuortes. Così ha azzardato l’impossibile: una lettera a Ai Weiwei con la proposta di esordire nel mondo della lirica. «Con grande sorpresa mi ha invitato nel suo immenso studio di Berlino, una vecchia fabbrica di birra. E scopro che l’artista è molto legato alla Turandot; nel 1987, giovane immigrato a New York, partecipò come comparsa alla mitica produzione di Zeffirelli al Metropolitan». Pochi giorni fa, Ai Weiwei si è presentato a Roma per un sopralluogo e con le prime tavole, pieno di entusiasmo per la nuova avventura e un insospettato know-how teatrale. «Non avrei mai accettato se non si fosse trattato della Turandot », ha raccontato mentre curiosava come un bimbo a Disneyland nel laboratorio del Teatro in Via dei Cerchi, dove sono custoditi costumi – si è persino divertito a indossarne qualcuno – e cimeli del Costanzi. «Non ho mai dimenticato quelle comparsate al Met con mio fratello. Lo feci per mantenermi agli studi, l’opera era culturalmente lontanissima dai miei interessi».
È rimasto colpito dalla grandiosità del Teatro e dal versatile palcoscenico che gli consentirà di mettere in pratica qualsiasi bizzarria. Competenza musicale? Zero, giura lui, ma Turandot ha acceso una scintilla. «È emozionante immergersi nello sviluppo storico dell’opera e della drammaturgia, metterli in relazione con la mia esperienza personale e con la mia idea del palcoscenico, della performance, della narrativa, della rappresentazione. L’opera lirica è una forma d’arte incredibilmente ricca che stimola le migliori qualità dell’ingegno umano, l’impegno, la maestria, l’eccellenza». Neanche a dirlo, sarà una Turandot che ricorderà solo musicalmente gli allestimenti del passato. «Sarà il mio punto di vista», assicura, «la lirica immersa nella contemporaneità; le lotte culturali e politiche del presente rappresentate attraverso la storia di Puccini». Fuortes, nel tentativo ormai riuscito di internazionalizzare le produzioni dell’Opera di Roma, si fa forte della storia del Teatro, fondato nel 1880, del dialogo fra le arti e la contemporaneità che gli hanno permesso di superare le crisi degli ultimi decenni; messaggio raccolto dalla stampa estera, con lodevoli commenti sul New York Times e sul País, sull’ Economist e poche settimane fa su Forbes. «Nei primi decenni del Novecento qui lavorarono Picasso, Cocteau e Bakst, così come Balla e Prampolini», dice il sovrintendente, ricordando i periodi più fecondi che quand’era ragazzo stuzzicarono la fantasia del melomane, «fino a De Chirico, Manzù, Kokoschka e Guttuso. In questi anni abbiamo lavorato con cineasti come Terry Gilliam, Werner Herzog, Sofia Coppola, Marco Bellocchio, Emma Dante e Mario Martone». Per non dimenticare il glorioso passato del Costanzi, ha pensato a un’apertura autunnale, il prossimo 10 settembre, con una riedizione del Work in progress realizzato nel 1968 dallo scultore Alexander Calder (1898-1976): diciannove minuti, su musica registrata, in miracoloso equilibrio tra drammaturgia e materia in movimento. «Quest’anno ho voluto continuare questo dialogo invitando l’artista sudafricano William Kentridge, che due anni fa ha realizzato la bellissima Lulu di Berg, a studiare un progetto per una seconda parte da abbinare a Work in progress ».
La serata Calder/Kentridge è già in fase di realizzazione; l’artista, 64 anni, è al lavoro nello studio di Johannesburg mentre via Skype ci racconta il progetto Waiting for the Sybil,sei scene di circa quaranta minuti, una performance con musicisti e due ballerini. «Voglio proporre qualcosa che sia al contempo leggero e rivoluzionario», spiega, «partendo dalla storia della Sibilla; la gente faceva file interminabili davanti all’antro per ascoltare i suoi vaticini. Mi ha suggestionato – come suggestionò Dante e James Joyce – l’idea delle foglie mosse dal vento dai cui lei traeva responsi che, data la moltitudine, non si capiva mai bene a chi fossero indirizzati; una metafora sull’incertezza e l’impossibilità di conoscere il futuro. La musica che ho in mente varia da Stockhausen a suoni con variazioni minime di note e toni, oltre a pezzi tradizionali sudafricani rielaborati dal pianista jazz Kyle Shepherd». Una stagione indimenticabile prima della fuga alla Scala? Fuortes risponde con la saggezza di chi sa di vivere nell’italianissima certezza che, nelle arti, quel che oggi è già in cantiere domani è utopia (il suo contratto col Costanzi scade a fine marzo 2020): «Stia certo, per la Turandot sarò qui al mio posto».