Occuparsi della voce è la base del lavoro dell’attore su se stesso?
«È lavorare sull’intero essere umano. La voce rivela tutto di noi: desideri, sessualità, pudori, angosce. Per Patsy Rodenburg e Kristin Linklater non esiste il corpo da una parte e la voce dall’altra, ritrovare la propria voce è mettere in moto un processo di liberazione.
Che poi è l’assunto da cui partiva Orazio Costa».
Lui è stato il tuo maestro in Accademia.
«Costa ha “liberato” generazioni di attori in questo paese. Da lui sono passati Gian Maria Volonté e Carmelo Bene. Era forse l’unico che Luca Ronconi riconoscesse come maestro. Ha insegnato in Accademia fino al 1976. Poi, dopo vent’anni di assenza, è tornato appena in tempo perché ce lo trovassimo io, Pierfrancesco Favino, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Sandra Toffolatti...».
Tutti insieme nella stessa classe.
«Se da quella classe è venuto fuori qualcosa di buono è anche perché abbiamo avuto lui come maestro. Costa partiva dal presupposto che bisognasse restituire al corpo la propria libertà. Si tratta in sostanza di recuperare la dimensione in cui i bambini vivono fino ai 4 o ai 5 anni, prima che famiglia, scuola, società inizino a stringere le proprie tenaglie sui corpi. È attraverso certe prescrizioni (“non si parla così, non ci si muove così”) che i corpi iniziano a registrare una serie di divieti che ne condizionano l’espressività, la respirazione, le voci».
Liberato il corpo, ti sei scoperto addosso la capacità di riportare in vita i testi di alcuni autori fondamentali.
«No guarda, io ho ancora migliaia di ostacoli da rimuovere... Ma con i testi ho un rapporto di grande libertà. L’ho raccontato altre volte. Anni fa stavo facendo la lettura del Pasticcicaccio in un piccolo studio di San Giovanni. È stata una specie di epifania... a un certo punto ho visto le parole staccarsi dal corpo di Gadda e finire nel libro. E io in qualche modo avevo il potere di staccarle da quella dimensione orizzontale per riportarle verso uno stato fisico».
Da lì è cambiato tutto.
«Da quel giorno è cambiato il mio modo di leggere un testo. Ho capito che i libri sono oggetti transitori, dei medium, contenitori dove sono depositate voci che possono essere risvegliate».
È a quel punto che il fantasma entra in scena.
«Non potrebbe succedere se non in teatro. C’è bisogno di un luogo in cui ci siano dei corpi vivi che creano con te una sorta di campo magnetico. Questa cosa, quando accade, è palpabile. Mi dico: vediamo che succede se arriva Pasolini, se arriva Gadda o Primo Levi, vediamo come reagiamo tutti quanti se, proprio in questo luogo e in questo tempo, ci ritroviamo a tu per tu con Aldo Moro».
Con Moro fu impressionante.
«Per Aldo Moro avevo lavorato molto sulla drammaturgia, mi ero consultato con degli storici, ma fino a un attimo prima di entrare in scena non sapevo cosa sarebbe successo. Forse è stato davvero un piccolo esorcismo. E so che non mi sarebbe successo se mi fossi proposto di esporre una tesi. È questa la differenza rispetto al teatro più intenzionalmente civile. Il teatro e il cinema civile hanno raggiunto a volte vette molto alte ma lì c’è sempre il rischio della dimostrazione di una tesi. Che il pubblico può accettare o respingere, ma da cui raramente viene messo in crisi. Quando lavoro su un testo preferisco provare a riportare in vita la presenza di un certo autore scommettendo sulla crisi. Leggendo I sommersi e i salvati provo a proiettare l’ombra viva di Primo Levi sul 2019 per vedere che forma prende».
Cosa pensi quando vedi un politico in azione? Lo consideri un collega che gioca un diverso campionato?
«Gli uomini politici sono anche loro attori: la Storia insegna che tanto più sanno manipolare l’ordine del simbolico tanto più riescono a soggiogare le masse, a ipnotizzarle».
Quindi l’attore politico tende a mettere in catene la città allo stesso modo con cui l’attore di teatro può provare a liberarla?
«Pensa alle analogie tra rito teatrale e rito processuale. Al di là delle facili somiglianze (l’uso della retorica, la presenza di un pubblico, i costumi di scena) entrambi hanno a che fare con temi profondi come l’espiazione, la colpa, la separazione del puro dall’impuro. Tutto si diparte da una matrice comune, il rito religioso. Nell’antica Grecia nascono contemporaneamente il primo tribunale degli uomini e i primi spettacoli teatrali. Plutarco racconta l’incontro tra Solone (il grande legislatore) e Tespi (uno dei primi drammaturghi). Solone assistette a una delle prime rappresentazioni di Tespi e dopo un po’ decise di interrompere lo spettacolo ritenendolo pericoloso per l’ordine costituito. È una dinamica che si ripete. Pensa all’Amleto: Claudio, re e assassino, fa interrompere la rappresentazione teatrale voluta dal principe di Danimarca perché mina il suo potere. Stesso meccanismo in un film di Ingmar Bergman intitolato Il rito, in cui un giudice muore al cospetto di una rappresentazione teatrale. Quindi da una parte c’è l’ordine costituito, necessario ma soffocante, dall’altra il teatro, che che attraverso il gioco e il ritorno all’infanzia mette in atto un meccanismo di liberazione».
Senza questo gioco il potere rischia di acquistare profili sempre più mostruosi.
«In questo c’è la forza eversiva dell’arte, e insieme la sua responsabilità. Oggi la responsabilità è grande. Bisogna mettere davvero in gioco i corpi a teatro, visto che lì fuori altri corpi – corpi che annegano, che muoiono – vengono messi in gioco dal potere in modo tragico».