la Repubblica, 29 maggio 2019
L’addio della teologa che sfidò i maschilisti
«Quando sono arrivata in questa università era la prima volta che delle donne potevano accedervi. Ho passato gli anni della filosofia, che a quei tempi erano tutti in latino, come un’isola intangibile. Molti dei miei compagni di studio avevano avuto dai superiori l’ordine di non rivolgermi la parola e di non avvicinarmi. L’obbedienza fu tale che nessuno mai si sedette accanto al mio banco né a destra, né a sinistra, e neppure davanti o dietro. Ero un’isola».
L’aula «storica» della Gregoriana, come viene chiamata ancora oggi, e cioè l’unica rimasta coi banchi del 1920, è gremita per l’ultima lezione, dopo quarant’anni di insegnamento, della grande biblista Bruna Costacurta, teologa riservata, mai nessuna intervista concessa ai giornali nonostante le molteplici richieste, una vita dedicata agli studi del testo ebraico scandagliato nella sua profondità semantica: «Continuamente lotto – dice – contro la tentazione di semplificare, di scegliere un unico senso dove c’è una polisemia».
Era la fine degli anni Sessanta quando Costacurta, prima donna laica a essere ammessa agli studi filosofici e teologici che fino ad allora erano riservati soltanto a seminaristi e preti, mise piede nell’università che aveva annoverato fra le sue fila studenti del calibro di Oscar Romero e padre Massimiliano Kolbe, e ancora i teologi Roberto Busa e Bernard Lonergan, per arrivare poi fino a Carlo Maria Martini, Elmar Salmann e Joseph Ratzinger che tenne un corso sull’eucaristia. Nemmeno le suore godevano di tale privilegio. Semplicemente a loro non era concesso studiare. Entrò in università in punta di piedi, circondata da lunghe talari nere che la guardavano chi con indifferenza, chi con un certo astio: «Non sarai mai prete; se vieni ancora qui ti gonfiamo di botte», le dissero dei seminaristi fuori dall’ateneo. Ma i professori la difesero. «Se succede qualcosa a Bruna saprò con chi prendermela», fecero sapere agli interessati. E, addirittura, mentre frequentava la specializzazione al Biblico, le offrirono l’insegnamento in Scienze religiose, poi in Psicologia, quindi in Spiritualità e infine allo stesso Biblico dove è rimasta fino a ieri, 72enne, come docente di esegesi dell’Antico Testamento.
La Chiesa era da poco uscita dal Vaticano II. Il vento del rinnovamento soffiava, ma a correnti alterne. Alle sue prime lezioni i seminaristi andavano per curiosità: «Venivano perché incuriositi dal fenomeno strano, la presenza inconsueta di una donna che insegnava Scrittura», racconta. E continua: «Poi la bellezza della parola di Dio prese il sopravvento e il mio essere donna smise di essere un’attrazione. Feci la tesi di dottorato sull’emozione della paura. Affrontai un tema inesplorato». E, in effetti, non sono tanti coloro che fanno esegesi del testo scandagliando il mondo delle emozioni dei personaggi, le dimensioni affettive ed emotive del tessuto personale. Di qui gli anni di studio dedicati a far affiorare la profondità della Parola: «Nella Bibbia gioca un ruolo importante la molteplicità di significati presenti in una espressione linguistica. Prendiamo il Salmo 103, versetto 12: “Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe”. “Da noi” può anche essere tradotto “da sé”. Dio quindi allontana le colpe da noi ma anche da sé, così da non ricordarsele più». E conclude: «La parola di Dio è pozzo inesauribile a cui attingere senza fine. Anche una piccolissima pozza d’acqua può fare intravedere riflessi infinti, ancor più le piccole gocce del testo biblico perché sono gocce di Dio».