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 2019  maggio 29 Mercoledì calendario

Gli Agnelli diversificano e intascano un tesoro

L’aneddoto che gira sotto la Mole da ieri mattina è troppo bello per domandarsi se sia anche vero. Raccontano che lunedì, mentre la città attendeva i dati della sconfitta di Sergio Chiamparino alle Regionali, in uno dei palazzi della politica un dirigente della Fiom si sia imbattuto in un collaboratore della sindaca Chiara Appendino. “È in una riunione al piano di sopra – si sarebbe sentito dire il sindacalista – Ora salgo ad avvertirla. So che ti vuole parlare a tutti i costi della Fiat e di questo affare con i francesi. Aspetta un momento, vi faccio incontrare”. Dopo pochi minuti, però, il funzionario comunale è ridisceso con un sorriso mesto: “Ora non può, dice che si rifarà viva…”. Ecco, l’atmosfera che si respira nella Torino del dopo annuncio sulla fusione Fca-Renault – in vista di quell’accordo che, se riuscisse anche a placare la rissa tra i francesi e i giapponesi di Nissan, metterebbe in piedi il colosso dell’auto mondiale (con oltre 15 milioni di auto vendute all’anno) – è proprio questa: e oscilla tra l’indifferenza e l’inerzia.
Comprensibile, se si tiene conto che l’avvento dell’era Marchionne, con l’assorbimento della Chrysler e lo spostamento del baricentro del gruppo negli Usa, aveva già sancito la fine di un processo cominciato con la crisi aziendale degli anni Novanta del secolo scorso: la vecchia one company town, il posto fordista dove “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia” (secondo gli aforismi di Gianni Agnelli, osannati come vaticini), aveva smesso di pulsare come il cuore di un sistema fatto di storia e di tradizione. Sino all’estremo “oltraggio” del cambiamento del nome e del trasferimento delle sedi fiscali della Fca, inventata da Sergio Marchionne, ad Amsterdam e a Londra. Dunque, e con più di una ragione, poco di scandaloso (nel senso evangelico dell’opportunità che gli scandali avvengano) per una città che ha già visto materializzarsi di tutto attorno al suo vecchio feticcio chiamato Fiat. A cominciare dal fabbricone di Mirafiori, un tempo simbolo della produzione italiana e della lotta di classe con i suoi 60 mila lavoratori e, oggi, ridotta al lumicino di una cassa integrazione lunga un decennio e per soli 5 mila occupati (con l’indotto si arriva a 100 mila posti di lavoro).
Ma se il futuro non è più legato all’interrogativo sul ruolo guida del capoluogo piemontese, in una realtà che è ormai impossibile ridurre a una dimensione italiana, resta invece aperta la questione che riconduce la discussione ancora una volta sotto la Mole e in riva al Po. Proponendo un quesito che, per il momento, è stato frequentato solo dal sindacato: che cosa porterà l’alleanza Fca-Renault a Mirafiori e nelle altre fabbriche torinesi del gruppo? Come si concilieranno le sovrapposizioni e le conflittualità tra le diverse piattaforme produttive e che effetti avrà tutto questo per le sorti degli stabilimenti italiani? Infine, che sorte toccherà al progetto della 500 elettrica, che dovrebbe riempire ciò che resta di Mirafiori, e che destino avrà il mitico “polo del lusso” di quel piano di Marchionne esaltato nei commenti agli annunci di ieri (“Solo il suo straordinario lavoro e il rilancio di Fca ci hanno fatto trovare pronti all’appuntamento con Renault”), ma di fatto dimenticato nelle strategie attuali e nelle garanzie, soprattutto per l’Italia e ancora di più per Torino? La mancanza di Marchionne e, per paradosso, di quelle sue partite a carte in pizzeria con l’ex sindaco di Torino e poi governatore del Piemonte Chiamparino, aggiungono inquietudini e preoccupazioni (il manager era stato sempre il più credibile nell’assicurare una qualche continuità subalpina alla ex Fiat). Così come la circostanza che l’ormai sterminata pletora di discendenti del senatore Giovanni Agnelli, radunati nell’accomandita di famiglia, appare del tutto appagata grazie agli oltre 5 miliardi di dividendo distribuiti negli ultimi due mesi.
Una situazione su cui pesano le inerzie, prima ancora che del traballante governo Conte, della sindaca Appendino, i silenzi delle rappresentanze del mondo industriale torinese (se si escludo gli ossequi a John Elkann) e l’enigma su come intenderà muoversi il nuovo governatore Alberto Cirio, forza italiota ma a capo di una giunta a forte trazione leghista, rimasto zitto davanti alle prime indiscrezioni sulla fusione Fca-Renault, persino nelle ultime ore della campagna elettorale (come d’altra parte ha fatto Chiamparino).
Il tutto mentre in città, il nuovo dividendo da 2,5 miliardi distribuito ai soci per consentire la parità di quote al 50% con Renault, viene già giudicato come un avvio della diluizione di fatto dell’impegno della famiglia in Fca, resuscitando le similitudini con le vicende che hanno accompagnato, nel 2017, l’intesa tra il gruppo Itedi (La Stampa-Il Secolo XIX) e il Gruppo Espresso (Repubblica), diventati Gruppo Editoriale Gedi con la quota più forte saldamente in mano ai De Benedetti. Ma dove Elkann continua ad avere un peso addirittura superiore alla quota reale: lo stesso potrebbe dunque accadere un domani con Fca, realizzando l’obiettivo di intascare denaro (l’interesse che sta dietro molti membri dell’accomandita di famiglia e che è già stato soddisfatto, e in maniera cospicua, in queste settimane) e mantenendo un certo qual peso o almeno il prestigio, diversificando a quel punto gli investimenti di Exor e, infine, impedendo che si parli apertamente di una fuga degli eredi Agnelli dalla loro storia.