Libero, 29 maggio 2019
L’abito che si indossa solo su internet
Si chiama Iridescenze, perché si muove cambiando colore e ha una consistenza quasi luminosa: è l’abito digitale battuto all’asta per la ragguardevole cifra di 9500 dollari (una follia) a New York durante il week end dell’Ethereal Summit, manifestazione che guarda al futuro. Questa volta a indossarlo su Instagram ci ha pensato l’artista Johanna Jaskowska, che ha collaborato alla realizzazione. Ora il facoltoso compratore avrà a disposizione 28 giorni per fornire una foto e consentire alla casa di moda di realizzare il capo, adattandolo alle sue fattezze, dopodiché potrà sfoggiarlo soltanto nella sua vita virtuale. Il motivo di un costo così alto proprio non si spiega. Certo è che in questi ultimi tempi la moda si interroga sul tema della sostenibilità. Molti stilisti stanno affrontando il problema dell’impatto degli abiti sul pianeta e cercando una soluzione per contribuire alla lotta contro l’inquinamento. Di recente è stata organizzata persino una tavola rotonda a Londra con influencer arrivati da diverse parti del mondo. Dal dibattito acceso è emerso che una delle possibili soluzioni potrebbe essere poprio la moda digitale (il nulla). A poco sono servite le ragioni (da vendere) di chi ha cercato di far capire (giustamente) che gli abiti digitali non esistono. Che il re è nudo. Niente da fare. Anzi. Maison The Fabricant ha preso la palla al balzo per rispondere e lanciare il primo vestito digitale, creato utilizzando un software 2D per il taglio dell’indumento e uno di progettazione 3D per il rendering. Questa è di sicuro la soluzione più sostenibile, figlia del mondo dei fashion influenzer che dell’apparire hanno fatto la loro unica ragione di vita. Compri, fai la foto e la pubblichi sul profilo social. La casa norvegese Carlings ha già disegnato e sfornato un’intera collezione low cost. Per 20 o 30 euro si acquistano una felpa o una giacca, si carica una foto sul sito che consente al software di farsi “cucire” (si fa per dire: sono abiti che non hanno mai visto ago e filo) virtualmente il capo su misura da postare (#ootd). Una passerella quella di Carlings tra tute metalliche dai colori fluo e codici stampati su felpe che strizzano l’occhio al mondo della tecnologia, accompagnati da slogan come “Artificial Excellence” o “I’m not a robot”. Il postino non suonerà mai, neanche una volta. Perché a casa non arriverà nessuna scatola. Tutto ma proprio tutto avverrà on line. «Nell’ultimo decennio, la moda si è spostata dalla strada ai social media», come ricorda Morten Grubak, direttore creativo di Virtue Nordic. «Le piattaforme come Instagram oggi sono passerelle virtuali per milioni di persone che si esprimono nei modi più incredibili. Sono loro a spingere in avanti la moda alla velocità della luce». C’è da dire che molti comprano intere collezioni solo per una foto su Instagram e poi rispediscono tutto indietro, ad aziende che con ogni probabilità si sbarazzeranno di questi capi, magari bruciandoli. «Non esiste brand al mondo che possa dissolvere da solo l’inquinamento, ma ognuno di noi ha la responsabilità di fare qualcosa per mettere fine a questo problema. Il nostro progetto è nato per portare il discorso al livello successivo e ispirare i creativi a pensare fuori dagli schemi», dichiara Grubak. Siamo interdetti. Tuttavia non si possono sottovalutare gli abiti digitali perché come fa notare Stephanie Yeboah, blogger e scrittrice freelance, che lavora da anni nell’industria della moda «ormai indossare qualcosa una volta sola, farsi una foto per Instagram e poi rimandare indietro il pacco è un trend a tutti gli effetti. Indossare qualcosa due volte è quasi diventato un tabù, come se fosse la dimostrazione che non sai stare al passo con i tempi». L’abito virtuale ricorda molto il fidanzato inesistente di Pamela Prati conosciuto sui social. Il mondo purtroppo si sta dirigendo a passo svelto verso l’irreale, verso amori e relazioni invisibili proprio come i vestiti.