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 2019  maggio 29 Mercoledì calendario

Biografia di Roberto Calasso

Roberto Calasso, nato a Firenze il 30 maggio 1941 (78 anni). Scrittore. Saggista. Editore. Proprietario, presidente e direttore editoriale di Adelphi. «Dietro l’Adelphi c’è il progetto di una casa editrice come forma. […] La casa editrice come forma è una somma di oggetti cartacei che messi insieme possono anche essere considerati come un unico libro» • «Sono nato in mezzo ai libri. Mio padre, che era storico del diritto, lavorava per lo più su testi stampati fra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento. Molti erano i volumi in-folio. Impossibile non vederli. Anche mio nonno Ernesto Codignola, che insegnava Filosofia all’Università di Firenze e fondò la casa editrice La Nuova Italia, aveva una biblioteca notevole, soprattutto di storia e filosofia, oggi incorporata nella biblioteca della Scuola Normale di Pisa. […] Fin dall’inizio, ero attratto dalla letteratura. Leggevo di tutto, dai romanzi gialli agli autori più difficili. […] Per vari anni ho preferito il leggere allo scrivere. Il primo testo che ho pubblicato era un saggio su Adorno, il surrealismo e il mana. Apparve su Paragone nel 1961. Avevo vent’anni» (ad Alain Elkann). «Dopo aver frequentato il liceo classico T. Tasso di Roma, si è laureato in Letteratura inglese con Mario Praz presentando una tesi sulla teoria ermetica del geroglifico in Sir Thomas Browne, erudito e occultista secentesco. Infatuatosi […] del filosofo Theodor W. Adorno, che ne apprezzò la solerzia bibliografica (“Ha letto tutti i miei libri e anche quelli che non ho avuto ancora il tempo di scrivere”, disse di quel ventenne incontrato nel salotto di Elena Croce), si riprese dalla sbandata francofortese grazie a Bobi Bazlen, lettore onnivoro e fondatore dell’Adelphi, che gli spiegò come “l’io illuministico non andava salvato ma condotto a naufragio definitivo” e gli dischiuse le porte della cultura mitteleuropea» (Pietrangelo Buttafuoco). «Bazlen: fu lui, con Luciano Foà (ex segretario generale Einaudi), a fondare l’Adelphi Edizioni il 20 giugno 1962, grazie all’aiuto finanziario di Roberto Olivetti. Calasso aveva conosciuto Bazlen con Elémire Zolla e Cristina Campo nel suo appartamento romano di via Margutta 7. “Il pittore Giorgio Settala, cugino di Bobi, era un nostro amico di famiglia, e già da lui avevo sentito parlare di Bazlen come di un personaggio imprendibile e affascinante. Quando poi lo conobbi, ne ebbi una totale conferma”. […] Bazlen era già stato consulente per Bompiani, Astrolabio e, dal ’51 al ’62, per Einaudi: “Quando le sue proposte venivano accolte davano risultati magnifici, come Musil da Einaudi. Però per lo più erano respinte. Visto oggi può sembrare comico, ma Konrad Lorenz fu bocciato: l’etologia suonava come una cosa poco seria”» (Paolo Di Stefano). Determinante fu il rifiuto che Giulio Einaudi oppose alla pubblicazione dell’edizione critica degli opera omnia di Nietzsche. «“Einaudi aveva capito che pubblicare qualcosa di Nietzsche era una buona idea. Ma dovette, diciamo per ‘ragioni di Stato’, tornare sui suoi passi. Gli apparve chiaro che l’edizione critica di Nietzsche voluta da Colli e Montinari avrebbe cambiato radicalmente la sua casa editrice. Mentre Luciano Foà capì subito che l’edizione di Nietzsche sarebbe diventata l’asse di Adelphi”. […] Quando nacque la casa editrice? “Posso dire il giorno preciso in cui Bazlen me ne parlò per la prima volta, perché era quello del mio ventunesimo compleanno, maggio 1962. Ci trovavamo nella villa di Ernst Bernhard, sul Lago di Bracciano. Il nome Adelphi non c’era ancora. Bazlen mi disse che stava per nascere la casa editrice dove avremmo potuto vedere pubblicati i libri più importanti per noi. E mi diede subito qualcosa da leggere”» (Antonio Gnoli). «Calasso inizia un fittissimo rapporto di collaborazione con Bazlen scegliendo i testi e i traduttori. Sta frequentando l’università, ma già ha dietro di sé un patrimonio enorme di letture, in tutti i campi, dalla filosofia alla matematica, della storia delle religioni alla musica. Bazlen lo utilizza come un sensore. È un formidabile consulente, anzi di più; per Bazlen è un membro di diritto di quella piccola società di fratelli che porta il nome Adelphi: un gruppo di amici, in cui regna la massima fiducia reciproca, una comunità reale, oltre che ideale, di persone che considerano i libri parte stessa della vita, superando la schematica divisione tra cultura ed esistenza umana che pare loro dominare nelle altre case editrici. L’Adelphi, è un fatto importante, nasce con finanziatori, ma non con un padrone. Calasso pensa di abbandonare gli studi per mettersi a lavorare a tempo pieno per l’Adelphi, ma Bazlen lo convince a continuare gli studi. Pensa che ci sarà tempo per il lavoro futuro nella casa editrice di cui egli è già parte» (Marco Belpoliti). «Quali erano i libri che Bazlen aveva in mente? “Quando parlava dei libri che gli premevano di più, Bazlen li chiamava i ‘libri unici’”. Unici in che senso? “Scritti da chi, per una ragione o per l’altra, aveva attraversato un’esperienza unica, che si era depositata in un libro. L’esempio più eloquente fu in questo senso il romanzo di Alfred Kubin L’altra parte. Un libro che nasceva da un delirio durato alcuni mesi. Nulla di simile Kubin aveva scritto prima, né scriverà dopo. Il romanzo uscì nel 1965 e inaugurò insieme a Padre e figlio di Edmund Gosse e al Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki la ‘Biblioteca Adelphi’”» (Gnoli). «Sarà proprio questa collana, nata nel 1965, che definirà l’intera proposta culturale della casa editrice, almeno sino agli anni Ottanta (“una collana che garantisca una assoluta libertà di movimento: esperienza viva, piena e insolita”); lì continuano a uscire libri e autori pensati da Bazlen, Foà, Calasso, Solmi. […] Nel 1965, […] a breve distanza dall’avvio dell’attività dell’Adelphi, muore Bobi Bazlen. Il colpo è forte per tutti. Bazlen è il motore della casa editrice. Tuttavia come sua consuetudine lascia un patrimonio di schede editoriali e soprattutto di lettere indirizzate a Luciano Foà, che contengono titoli da pubblicare, indicazioni sui traduttori e sui collaboratori, che finisce inevitabilmente per alimentare la produzione della casa editrice nel decennio successivo. Nei primi tempi l’intero gruppo degli adelphiani, in cui diventa sempre più importante Roberto Calasso, realizza il programma di Bazlen, ma poi è Calasso stesso, attivissimo nella lettura dei libri, nei suggerimenti, in quell’attività mercuriale di incontri e colloqui che è essenziale per portare linfa alla casa editrice, a imporsi come principale consulente, determinante nelle scelte editoriali. Nel 1968, con il trasferimento a Milano, il suo ruolo di direttore editoriale verrà confermato anche ufficialmente» (Belpoliti). «Negli anni Cinquanta in Italia, paese di civiltà editoriale ottima ma gracile, per via del periodo fascista e della precedente pochezza intellettuale, vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque Il Contemporaneo. I laici-liberali leggevano Il Mondo e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere, e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra. In questo quadro Adelphi si affacciò come un corpo estraneo. […] Per quel che riguarda la letteratura, il vuoto era enorme. Si era in un’epoca in cui perfino la categoria del fantastico suonava sospetta, non so se mi spiego. Per questo facemmo subito L’altra parte di Kubin e il Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki. C’era solo l’imbarazzo della scelta. […] Ovvio che incontrammo difficoltà. Ma all’inizio non fummo attaccati: fummo ignorati. Fa ridere, ma quando uscirono i primi volumi dell’edizione critica di Nietzsche, che prevedeva 3.000 pagine totalmente inedite, ci fu un silenzio assoluto. Aurora è del ’64. E la voga di Nietzsche cominciò solo dopo il ’68, di rimbalzo dalla Francia. Solo perché c’erano Deleuze o Foucault o Derrida, per i quali ovviamente Nietzsche era essenziale. […] Venne il ’68, e di letteratura era vietato parlare. Noi, in quell’anno, pubblicammo il libro più frivolo della nostra storia, Le sorelle Brontë, di Bernard de Zogheb, scritto nel linguaggio delle cameriere di Alessandria d’Egitto. Però facevamo anche i veri libri del momento, cioè Alce Nero parla, Il Monte Analogo di Daumal, Il libro dell’Es… […] Dopo il ’68 insistemmo nel fare proprio ciò che secondo lo spirito corrente non andava fatto. Ricordo che quando pubblicammo Karl Kraus, nel 1972, Erich Linder – uno dei pochi che lo conoscevano – mi disse con il suo tono di sicurezza assoluta: “Ne venderete venti copie”. Non fu così, ma ci volle un po’ di tempo. Ricordo le 3.000 copie con cui partimmo per La Cripta dei Cappuccini, di Joseph Roth. Era allora un ignoto, poi diventò la passione dei giovani dell’ultrasinistra. […] Già nel ’78, la prima tiratura del Profeta muto di Roth fu di 30 mila copie. Quanto a Siddharta, dilagò dopo l’edizione nella Piccola Biblioteca, che è del ’75. […] Fu intorno agli anni Settanta che cominciammo a percepire la presenza di un misterioso pubblico, che stava diventando molto vasto… […] I singoli successi non erano mancati da subito. […] Solo che all’inizio la collana che li ospitava, la Biblioteca, sconcertava non poco, perché accoglieva libri di ogni genere ed epoca. Poi qualcuno cominciò a cogliere i nessi fra questi libri. E così nacque la fortuna e la forza del marchio. Ne avemmo conferma quando avviammo la Piccola Biblioteca, nel 1973. Allora il senso dell’impresa fu colto al volo» (a Enrico Regazzoni). Raggiunti nel 2012 i cinquant’anni di attività nel segno di un successo ormai consolidato, nell’ottobre 2015, al momento della fusione tra Mondadori e Rcs, Adelphi, allora in maggioranza appartenente al gruppo Rcs, fu acquistata da Calasso, per salvaguardarne la piena indipendenza. «Cosa significa aver riacquistato la maggioranza delle azioni? "Ho sempre pensato che la proprietà di una casa editrice fosse un elemento non trascurabile della sua qualità, così come lo è il numero di copie vendute dei libri che si pubblicano. Il caso di una coincidenza fra la conduzione editoriale e la maggioranza è in questo senso esemplare. Quando la proprietà della maggioranza coincide con chi decide quali libri fare e in che modo, l’esposizione al rischio è massima e non ci sono scuse dietro cui trincerarsi. Ed è una bella sfida". […] In che misura è proprietario dell’Adelphi? "Lo sono all’incirca per il settanta per cento. 71 per l’esattezza ". […] "Per una casa editrice è questa la vera discriminante: la libertà e la capacità di dire ‘no’. E pubblicare solo le cose che ci piacciono. Se possibile, che ci piacciono molto"» (Gnoli) • Parallela all’attività di editore è quella di scrittore, iniziata da Calasso – dopo qualche prova giovanile, come l’abbozzo di un testo di memorie composto a soli dodici anni – nel 1974 con quello che sarebbe poi rimasto il suo unico romanzo, L’impuro folle. «Venne fuori di sorpresa, lo scrissi in due mesi con una sorta di febbre, mentre stavo lavorando a una introduzione alle Memorie di un malato di nervi di Schreber. Successe che Schreber improvvisamente diventò personaggio di romanzo. Come se le sue allucinazioni proseguissero in altra forma». «Oggi lo vedo come una sorta di prologo in cielo o in inferno ai libri che sono seguiti. Nella prima pagina dell’Impuro folle si parla della lacerazione dell’ordine del mondo, che è il tema alla base della Rovina di Kasch e poi degli altri. Ma L’impuro folle rimane un caso a sé. Stilisticamente è molto diverso da tutti gli altri miei libri. Si è chiuso lì, ma in realtà preludeva» (a Marco Cicala e Piero Melati). Ciò a cui preludeva era un’opera grandiosa e complessa, articolata finora in nove parti (La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K., Il rosa Tiepolo, La Folie Baudelaire, L’ardore, Il Cacciatore Celeste, L’innominabile attuale), in cui l’autore, valendosi di una straordinaria erudizione e di un’altrettanto mirabile capacità di individuare analogie tra ambiti apparentemente distanti, indaga principalmente la permanenza, l’evoluzione e la trasfigurazione delle forme, dei simboli, dei miti, dei riti e degli archetipi in cui l’uomo ha codificato nel corso del tempo la propria conoscenza del mondo, attraversando e intersecando nelle proprie pagine l’India vedica e la Grecia classica, Kant e Tiepolo, Talleyrand e Baudelaire, la paleoantropologia e l’analisi dello Zeitgeist contemporaneo. «Una vertiginosa costellazione di scritti. […] Un cantiere straordinario, ancora aperto, per il quale verrebbe da dire: bene, ecco un signore erudito, colto, curioso che, con polimorfa inclinazione, sta scavando tra le rovine delle civiltà per restituirci una molteplicità di culture fuori da ogni accademismo. Ma, a ben guardare, è come se dietro quella ramificazione di opere si cogliesse un disegno ancora più fitto e grande che appartiene all´intera casa editrice. Non esisterebbe il Calasso scrittore senza il Calasso editore, e viceversa. Nel senso che le due entità, pur separate nettamente, si corrispondono. Da quei libri, che compongono la Biblioteca, affiora una certa paradossalità: sono a un tempo unici e correlati tra loro da una sottile trama che potremmo sospettare esca dalla testa di quest´uomo tanto pubblico quanto enigmatico» (Gnoli). «Quest’opera, come la definirebbe? “‘Letteratura’ è una parola che ormai può assorbire in sé qualsiasi cosa, perciò la più adatta. Sono libri prevalentemente narrativi, che trattano temi disparati e molto distanti fra loro. Possono essere letti come autosufficienti e isolati, ma sono pieni di connessioni”» (Elkann). «In rapporto a quello che scrivo, l’espressione di Nietzsche “pensiero impuro” mi sembra una buona approssimazione». «Vado avanti applicando lo zuihitsu, una categoria giapponese che significa “seguire il pennello”. Non ho mai pensato a questa successione come a un edificio. Se lo avessi fatto, sarebbe crollato presto» • Tra i suoi saggi, tutti editi presso Adelphi: I quarantanove gradini (1991), La letteratura e gli dèi (2001), La follia che viene dalle Ninfe (2005). Da ultimo, nel 2018, ha pubblicato la sua tesi di laurea, I geroglifici di Sir Thomas Browne • Sposato dal 1968 con Fleur Jaeggy, scrittrice svizzera di madrelingua italiana; senza figli • Juventino • «Sono stato malato di cinema; ora molto meno. Mi piace sempre, però ho perso il gusto per le sale. Un tempo erano posti un po’ fumosi, talvolta loschi… Il vero raptus fu da ragazzino: andavo al cinema anche due o tre volte al giorno… La passione è continuata fino a dopo i trent’anni» • «I libri, continuo a scriverli tutti con la penna stilografica, lasciando un po’ di margine a sinistra sul foglio per eventuali note. Un tempo ribattevo tutto a macchina, su una Lettera 22. Poi sono arrivati i computer: grazie a Dio ho una santa assistente, Federica Ragni, alla quale ogni giorno passo le pagine manoscritte. Il computer, lo uso per tutto il resto, ma non per scrivere i libri. Per scrivere ho ancora bisogno del rapporto con la carta e la penna» • Fondamentale, in tutta la sua produzione, il concetto di sacrificio. «Il sacrificio è la cosa più difficile da pensare che abbia mai incontrato. Non è certo una mia invenzione: lo si ritrova ovunque nella storia. Per un lunghissimo periodo le civiltà più distanti sono accomunate dal fatto che in forme diverse tutte praticano il sacrificio, dalla Cina all’India alla Grecia alla Palestina. Poi c’è una svolta: con Gesù il sacrificio vuole finire per sempre e diventa, nella messa, memoria del sacrificio. Ma al tempo stesso la morte di Gesù è un ritorno alle origini del sacrificio, dove è il dio a sacrificarsi. Infine c’è l’oggi, in cui la pratica rituale è espunta, non ha diritto di cittadinanza. Ma l’assassinio-suicidio dei terroristi islamici, minaccia che continua a paralizzare il mondo, è una evidente forma sacrificale, dove la vittima è l’attentatore e tutti coloro che da lui vengono uccisi sono il frutto del sacrificio. Il sacrificio non scompare perché la società secolare ha deciso di non usarlo più come atto rituale. Torna in altre forme» (a Dario Olivero) • Tra i principali oggetti della sua analisi, cause e conseguenze del secolarismo. «Nel corso del Novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata, che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di “religioso”. La società secolare, senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa. La quale può assumere le forme politiche ed economiche più divergenti, capitalistiche o socialistiche, democratiche o dittatoriali, protezioniste o liberiste, militari o settarie. Tutte da considerare, in ogni caso, quali mere varianti di un’unica entità: la società in sé». «Duemila anni dopo Cristo, il secolarismo avvolge il pianeta. Così è non perché abbia sconfitto le religioni, bensì perché, fra tutte le religioni, è la prima che non si volga a entità esterne ma a se stessa, in quanto visione giusta e ultima delle cose come sono e come devono essere. […] La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’innominabile attuale». «I puri secolaristi, privi di qualsiasi affiliazione religiosa e poco inclini alle fisime spiritualistiche, non riescono a rinunciare al bisogno di sentirsi buoni. Sarebbe il loro ideale se qualche biologo neodarwinista dimostrasse che la società, sin dai primordi, si fonda sull’altruismo e sulla tolleranza. E, perciò, che essere buoni costituisce un vantaggio evolutivo, unico criterio con cui possono misurare il bene. Ogni anno qualche volenteroso prova a dimostrarlo, invano» • «Sicuramente atea, la sua è una devozione sapienziale, come sempre ispirata alla veggenza e agli analogisti, e le sue tirate contro umanisti e transumanisti sono mirabilmente argomentate, il composto riesce vivido e nutriente, affascinante per secchezza di lingua e stile e catalogo delle sprezzature (la sua infinita risorsa). Non gli si può rimproverare quel che è la sostanza della sua accusa al secolarismo, non avere uno stile e usarli tutti. E non è poco» (Giuliano Ferrara). «Le famiglie culturali accampate da sempre nel nostro Paese hanno tutti i requisiti per non capire granché di Calasso. I cattolici gli danno dello gnostico e del distruttore – su Avvenire lo si accusò perfino di essere l’ispiratore del rituale neopagano del lancio dei sassi dal cavalcavia (i bulli, com’è noto, leggono libri sullo Satapatha Brahmana). La destra guarda con sospetto il suo estetismo, quasi fosse una mollezza sibaritica, e anni fa lo accusò di corrompere la gioventù in combutta con il suo maestro Elémire Zolla. Certi marxisti che un tempo gli apponevano lo stigma dell’irrazionalismo oggi lo tacciano di snobismo – il sottinteso ricattatorio di entrambe le accuse essendo che, mentre alla corte zarista di Adelphi ci si delizia con gli impalpabili versi di Gottfried Benn, fuori si accalcano ferrovieri e metalmeccanici sporchi di grasso a cui dà voce e coscienza lo scrittore realista» (Guido Vitiello). «Calasso possiede moltissime qualità. In primo luogo, una straordinaria cultura, che non finisce di meravigliarci: egli è a casa in quasi tutte le epoche, in quasi tutti i libri, in quasi tutti i miti. In secondo luogo, un acutissimo occhio analogico, che gli fa scoprire qualsiasi affinità nell’universo dei libri e della storia. Infine la capacità di raccontare i miti: anzi di riraccontarli, come Ovidio nel suo grande libro; l’unico modo per comprenderli e farli propri. Se a volte qualcosa manca nelle fonti, egli colma questa lacuna con una invenzione: la quale non è mai arbitraria, ma è la continuazione delle scoperte dei Greci. Una qualità Calasso non possiede: la fluidità; gli manca, perché non vuole possederla. Egli ha l’assoluta coscienza di essere un moderno; e pensa che uno scrittore non può abbandonarsi all’onda del racconto che non finisce mai, come Ovidio. Per lui, come per Nietzsche, il racconto è morto. La verità non si rivela nella continuità: alla continuità dobbiamo voltare risolutamente le spalle; e cogliere delle schegge luminose, che accecano gli occhi e feriscono le mani. L’aveva detto Platone: “All’uomo la verità è accessibile soltanto per minuscoli frammenti”. Calasso coglie questi “minuscoli frammenti”: spezza la continuità; ne fa scaturire barlumi, lampi ardenti e pericolosi» (Pietro Citati) • «Ancora oggi, Calasso trova che nulla sia più bello che lavorare sui libri. Nulla, per lui, è stato più bello che costruire per cinquant’anni libri Adelphi. Tutte le fasi sono affascinanti. Dapprima, con vasto sguardo, elaborare l’idea di una collana; poi scegliere i libri, tradurli, rivedere le traduzioni, scegliere la carta, scrivere i risvolti, inventare la copertina, cercando di tradurre con un’immagine sola, folgorante e misteriosa, l’intricata complessità di ogni volume. Oggi è così raro trovare un uomo felice di quello che fa. Calasso è felice» (Citati).