Corriere della Sera, 29 maggio 2019
Lo sguardo dell’aquila
Passiamo la vita a osservare il mondo, lo studiamo, lo analizziamo e poi, d’un tratto, ci accorgiamo che anche il mondo sta osservando noi. È un’esperienza eccezionale, non capita tutti i giorni di essere puntati, diciamo pure presi di mira, da uno sguardo così totalmente altro da noi. In questo caso, uno sguardo tanto altro quanto altero. Ecco il mondo esterno concentrato nell’intenzione di un’aquila, l’oggetto trasformato improvvisamente, quasi a tradimento, in soggetto. Un ribaltamento che ci incanta e insieme ci sconvolge. L’aquila, qui nei panni di tutto ciò che apparterrebbe al mero dato naturale, sembra essere la manifestazione di un’intelligenza superiore, qualcosa che giaceva nascosto tra le nubi, o anche solo confuso nel paesaggio, e ha deciso di mostrarsi per il tempo di uno scatto. Non occorre credere in Dio per vederlo. È l’espressione ineffabile della Natura naturans, in fondo traducibile – non me ne vorrà Spinoza – con la magia della vita, che rappresenta come un’eccedenza (di forme?, di bellezza?) e rende ancora più spasmodica la ricerca di senso. La materia non smette di farsi plasmare e riplasmare secondo le sue leggi – leggi che noi nei secoli abbiamo in parte disvelato e poco a poco seguitiamo a decrittare – eppure quanto è strana la nostra avventura terrestre!
Lo sguardo di quell’aquila non sembra suo, se ha senso dir così, sembra appartenere a qualcosa di cui lei è messaggera. Nel mito, Diana, sorpresa a farsi il bagno dal giovane cacciatore Atteone, si vendica trasformandolo in cervo e facendolo sbranare dai suoi cani. Non è forse Diana quell’aquila? Non siamo noi tutti Atteone, insieme al fotografo che l’ha svelata ai nostri occhi? Quelli che Giordano Bruno chiamava gli «eroici furori», intesi come l’aspirazione dell’uomo a unirsi con la divinità, non sono l’obiettivo invisibile contro cui si scaglia il maestoso rapace?
In volo sull’acqua
L’animale sembra essere una manifestazione di qualcosa di superiore
E poi c’è il caso. Più su ho usato il verbo capitare. La diffusione capillare di occhi fotografanti ha reso il bagno di Diana un vero inferno, ma nello stesso tempo ha prodotto una specie di autore collettivo, di autore universale, quasi un meta-autore che scatta in ogni istante e immortala quasi la possibilità stessa del fotografare. Chi ha ottenuto questa immagine è stato bravissimo ma soprattutto fortunatissimo, ovvero è stato uno di noi, o meglio, ognuno di noi. Il suo scatto è di tutti e di nessuno. È l’autoritratto di una piccola cosa dotata di vita, latrice del mistero più grande.