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 2019  maggio 28 Martedì calendario

La dipendenza da videogame

 La dipendenza da videogiochi entra ufficialmente nell’elenco delle malattie riconosciute dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Il nuovo testo dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Injuries and Causes of Death (la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati), alla sua undicesima revisione e che sarà in vigore dal primo gennaio del 2022, per la prima volta tra le oltre 55mila patologie per le quali vengono stilati codici e diagnosi uniformi, annovera anche il Gaming disorder. Ma quand’è che il gioco diviene patologia? Quando assume «una sempre maggiore priorità, al punto da diventare più importante delle attività quotidiane e da prevalere sugli interessi della vita», scrive l’Oms nel capitolo dell’Icd-11 dedicato al problema. 
Non importa, poi, che sia on-line o off-line, purché il gioco sia definito da «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti» che segnano «una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti». Per essere considerato patologico, continuano gli esperti, il comportamento deve essere reiterato per 12 mesi, «anche se la durata può essere minore se tutti i requisiti diagnostici sono rispettati e i sintomi sono gravi». 

IL PRIMO AMBULATORIO
Nell’era dell’iperconnessione sono soprattutto i videogame a rapire l’attenzione dei più giovani e a intercettarne i disagi latenti, rischiando di trasformarsi essi stessi in un’ulteriore patologia. Solo in Italia, stando a una ricerca Aesvi-Gfk, ci sono 29,3 milioni di videogiocatori. E secondo alcune stime, ben 270mila ragazzi, quasi tutti maschi, tra i 12 ed i 16 anni, sarebbero a rischio per Gaming Disorder. Una fascia d’età dinamica e plasmabile in cui difficilmente uno specialista si sente di cristallizzare un disturbo comportamentale in una diagnosi che, nella migliore delle ipotesi può restare incompleta. A Roma, nel 2009, è nato il primo ambulatorio italiano per la Dipendenza da Internet, trasformato nel 2016 nel Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicologia del Web, sempre presso il Policlinico Agostino Gemelli. In dieci anni di attività ha già dato assistenza a oltre duemila nuclei familiari. «Perché quando da noi arriva un adolescente – spiega il fondatore del Centro, Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta – nella terapia vengono coinvolti sempre anche gli adulti. Che la dipendenza da videogioco sia ora catalogata come una malattia a tutti gli effetti, non è una sorpresa. Ma le fasi di abuso e le dipendenze patologiche, di qualunque tipo, nascondono sempre un’angoscia più profonda, si tratta quindi di sovrastrutture che si vanno a sommare a disagi già esistenti. Il gioco, in questo senso, può essere un detonatore o un amplificatore. La terapia deve prendersi cura di questa angoscia, questo vale per gli adulti, figuriamoci per gli adolescenti». 

L’IPERCONNESSIONE
Insomma, non è detto che un videogame sparatutto ad alto contenuto di aggressività a cui un ragazzino resta incollato per lunghe ore, giorno e notte, sia la causa stessa della patologia. Anzi. «Sono il ritirarsi dalla vita sociale, il rifugiarsi nel mondo digitale, a nascondere il vero dolore mentale – continua Tonioni – ed è questo dolore che va ascoltato. Tanti miei pazienti, per esempio, sanno tutto del Rinascimento perché giocano ad Assassin’s Cread ambientato in quell’epoca; il Gaming in quest’ottica va visto come mezzo di comunicazione e di apprendimento, ma anche di difesa patologica da angosce incamerate prima. E per i nativi digitali – afferma ancora – cambia il profilo cognitivo. Sarebbe meraviglioso se a scuola materie coma la storia o la scienza, fossero mediate da visori digitali. Vi immaginate l’Odissea vissuta come un videogame?». Una recente ricerca su Cyberpsichological Behaviour ha stimato che il 7% dei giocatori online può essere definito «dipendente», mentre in altri studi pubblicati, il numero varia dall’1,5% dei più ottimisti ad addirittura il 20%. Anche in Italia sono nate cliniche per la disintossicazione. E il web continua a dare voce a molte altre patologie.