Corriere della Sera, 28 maggio 2019
Nico Orengo, l’outsider chic
Nico Orengo si considerava un torinese con l’accento ligure o un ligure con l’accento torinese? Agli amici lasciava pensare quello che volevano. Era parte inscindibile del suo indubbio charme lasciar credere agli altri quel che volevano di lui e non solo di lui. Senza contare che Nico era al fondo un uomo segreto e dietro l’aria di dire tutto di sé taceva molte cose. Per pudore prima che per diffidenza.
Poeta, scrittore, entrato nella storia del giornalismo quale conduttore di «Ttl» come tutti abbiamo imparato a chiamare «Tuttolibri» della «Stampa» non ha mai smesso di cercarsi. Nico desiderava vedere fin dove era capace di arrivare in barba alla sua difficile adolescenza un po’ di outsider e un po’ di fin de race. Credo affondasse nell’adolescenza anche quella malinconia che era il suo tono più segreto, quel tocco di crepuscolarismo che riservava pudicamente ai momenti di più amicale abbandono. Quando i suoi saluti, dopo una serata di parole, si protraevano ancora e ancora fino a sfiorare la fine della notte.
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La Einaudi di quei tempi là era stata l’università di Nico, andare ogni tanto a pranzo con Calvino in un trattoria a due passi dall’ufficio era stata in certo senso la sua laurea. C’erano stati poi, molto importanti per lui, gli amici-maestri Ceronetti, Ernesto Ferrero e altri.
Ci sono tanti modi di essere chic, il suo nasceva dall’ignorare ogni forma di snobismo. Ragazzo venne a Roma, ospite dei miei genitori, per frequentare il Centro sperimentale di cinematografia. La Capitale, la Roma della dolce vita, lo spiazzava. Fatto sta che nascondeva il suo magone dietro il fumo di troppe Marlboro. Allora mia madre, consolatrice ineffabile perché apparentemente distratta, un giorno ruppe gli indugi e lo invitò a raggiungere lei e mio padre all’ora di cena in una trattoria di Trastevere dove li avrebbe raggiunti fra gli altri Elsa Morante. Nico arrivò puntualissimo all’appuntamento nonostante all’epoca conoscesse poco la Capitale. Aveva in mano una rosa rossa, era per Elsa e gliela porse suscitando oltretutto la simpatia che va ai timidi quando sanno delicatamente osare.
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Giovedì a Mortola, fra Ventimiglia e Mentone dove è l’antica Villa degli Orengo poi diventata nell’Ottocento degli Hanbury, si terrà un convegno promosso dall’Università di Genova per commemorare Nico a dieci anni dalla morte. Non sarò là anche per fare un po’ come faceva lui che mi dava degli appuntamenti per poi non venire facendosi però perdonare con delle lunghissime e divertentissime telefonate. «Pronto Nico ci sei o ti devo richiamare più tardi? Come ti gira?».
Una delle ultime volte che ho incontrato questo mio amico travestito da cugino (credevamo poco nelle parentele tanto io che lui) fu nel cuore di un’agra primavera tutta nuvole e vento. Per uno scherzo del caso ci trovavamo entrambi in una cittadina balneare della costa adriatica. Dovevo parlare, unico oratore, in una sala umida e semivuota d’un autore dimenticato. Mentre mi recavo a quel deprimente appuntamento, passando davanti a un albergo così moderno e fragile da sembrare ancora in costruzione, nel dehors con tavolini e sedie di metallo bianco in stile falso liberty, ho visto non so dire con quale sorpresa Giulio Einaudi e il cugino Nico. L’editore mito della nostra letteratura senza rinunciare alla «sua riservatezza molto cool» (come ha saputo definirla a suo tempo Arbasino) e il giovane autore, entrambi vestiti con elegantissima trascuratezza giocavano a recitare la loro specialissima amicizia. Scherzeggiavano offrendo frattanto una variante inedita della parola rispetto. Una delle parole più difficili da coniugare con la parola amicizia ma loro ci riuscivano e vederli insieme era un bellissimo spettacolo.
Buon viaggio Giulio Einaudi, buon viaggio cugino Nico dovunque stiate andando!