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 2019  maggio 28 Martedì calendario

Intervista alla figlia di Roberto Vecchioni, lesbica e felice

Racconta Francesca Vecchioni: «A lungo, ho lottato contro una sorta di coming out rovesciato: non avevo tanto paura di dire di essere omosessuale, quanto di essere figlia di Roberto Vecchioni. Mi sembrava di prendere meriti non miei. Per cui, stavo lontana dalla ribalta e lavoravo, defilata, nel campo finanziario». Francesca, che oggi ha 45 anni, ci ha messo un po’ ad accettare che il cognome poteva aiutarla nelle battaglie in cui crede. Poi, nel 2012, è stata la prima italiana ad apparire sulla copertina di un giornale per famiglie con la compagna e le loro due gemelline. Ha fondato una non profit e, da quattro anni, produce i Diversity Media Awards, che stasera, all’Alcatraz di Milano, premiano personaggi, film, serie tv, giornali che si sono distinti nella rappresentazione delle diversità di genere, identità, etnia, disabilità ed età. In nomination, ci sono da Alessandro Cattelan a Enrico Mentana, dal film Euforia di Valeria Golino a C’è posta per te di Maria De Filippi. La diretta streaming della serata condotta da Fabio Canino e Melissa Greta Marchetto è dalle 20.15 su Corriere.tv. 

Francesca, come ha maturato la decisione di esporsi in prima linea? 
«Nel 2009, sono finita in coma per una settimana, a causa di una meningoencefalite. Al risveglio, mi è cambiata la visione della vita: non avevo paura di morire, ma guardavo gli altri come se non si rendessero conto di essere vivi. Nate le bambine, mi è stato chiaro che ognuno di noi può, nel suo piccolo, generare cambiamenti positivi, aiutare a mutare mentalità e immaginario collettivi». 
Gli italiani a che punto sono? 
«I social e la politica spingono alla divisione, invece dovremmo tornare a creare ponti: le differenze sono sempre una ricchezza. Il mio sforzo è proporre esempi di valore. Da ragazza, non avevo un esempio di donna gay per immaginarmi un futuro felice. Quando ho posato per il settimanale Oggi con Alessandra e le bimbe, ho pensato: a 15 anni, vedere una foto così mi avrebbe aiutata». 
La sua gioventù è stata tormentata? 
«Sono stata fortunata perché ho un padre e una madre dotati di intelligenza emotiva. Davanti a un figlio omosessuale, conta solo quello, non la cultura: ho visto professori con due lauree buttare fuori i figli gay e genitori umilissimi abbracciarli. La grande paura del genitore è che il figlio sia felice. Perciò, fare informazione solo vittimistica o sui casi di discriminazione non aiuta. Invece, l’ultimo nostro Diversity Media Report in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia rileva che, nei tg, i temi di identità di genere compaiono soprattutto, per il 62,6 per cento, in notizie di criminalità». 
Il suo coming out? 

«Mio padre me l’ha estorto. Andavo già all’università, ma con lui e mamma non trovavo il coraggio. Lui chiedeva “perché non vuoi dirmi chi è? È un drogato? Sarà mica in galera?”. Gli dissi che era una donna e lui: “Ma vaffa... mi hai fatto spaventare, non potevi dirlo subito?”». 
Com’è stato, senza grandi esempi, immaginarsi in una famiglia con due madri? 
«Una cosa lontana dalla realtà. Ho avuto tanta paura di sbagliare. Ho studiato tutta la letteratura scientifica esistente sull’omogenitorialità. Oggi Nina e Cloe hanno sette anni, sono serene, da quando guardo il mondo attraverso i loro occhi, lo capisco meglio. E io e la mia ex compagna siamo due mamme felici». 
Aveva proposto una coppia-simbolo: separarsi è stato più difficile? 
«Un po’. Se combatti tanto per qualcosa, fai più fatica a smontare. In più, con l’esposizione mediatica, senti il peso dell’aspettativa di tante altre persone. In generale, molte coppie omogenitoriali restano insieme forzosamente, soprattutto perché mancano le garanzie: la paura del genitore non riconosciuto legalmente è forte. Ma io e Alessandra ci siamo dette che vivere con trasparenza la separazione era il passo successivo della nostra battaglia per la normalità. Bisogna mostrare che certi diritti si possono esercitare anche quando la legge non aiuta».  
Oltre alla fecondazione da donatore, all’estero, ha forzato altre volte le regole? 
«Al pronto soccorso, quando mi si sono rotte le acque. Non volevano far passare Alessandra. Siamo entrate di forza. Poi, erano le quattro del mattino, è arrivato il nostro ginecologo e le ha permesso di rimanere. Funziona così: puoi buttare giù la porta, ma qualcuno ti deve aiutare a restare dentro. È fondamentale che la società ti dia una mano, perciò ogni opera di sensibilizzazione è preziosa».