la Repubblica, 28 maggio 2019
Leggeremo alla cinese
E se per capire il futuro dei libri ci toccasse guardare alla Cina? Già immagino lo sguardo inorridito di chi è pronto a ribattere «nossignore, la stampa l’ha inventata Gutenberg, è un copyright del Vecchio Continente, guai a toccarcelo». Sarà. Ma vuoi vedere che alla fine anche per i libri si ripeterà quello che accadde con le automobili? Anche lì l’origine di tutto era stata in Europa, certo, con quel Gutenberg delle quattro ruote che si chiamava Karl Benz, eppure non fu qui, bensì in America, con Henry Ford e le sue catene di montaggio, che cambiarono per sempre modi e tempi della produzione.
La stessa cosa mi pare stia avvenendo per l’industria culturale: gli ultimi dati dal Dragone Rosso ci consegnano una realtà impressionante, con il loro mercato editoriale che calpesta quello americano e nel 2018 sfonda i 25,5 miliardi di yuan (circa 3 miliardi e 300 mila euro), crescendo del 19,6% annuo. Solo che c’è un particolare interessante: parliamo di mercato digitale. Qui è la rivoluzione, qui il cambio di passo e forse il segno dal futuro. Già, perché in Cina il sistema dei libri si è incardinato da tempo su una regola assai diversa da quella che vige nei nostri paraggi: tutto si svolge con la barbara selezione darwiniana della rete. Immaginate insomma di applicare ai romanzi la stessa dinamica che ha mutato per sempre il mercato discografico, facendo la fortuna di Ed Sheeran o di Justin Bieber. Com’è noto, i due campionissimi dell’hit parade friggerebbero entrambi polpette in qualche fast food, se non fosse che i loro pezzi se li pubblicarono online scavalcando il parere negativo dei discografici. E voilà : successo planetario.
Ecco, nella Cina del Terzo Millennio gli scrittori seguono analogo iter, per cui su colossi social come Douban o Tencent’s Weibo (cresciuto esponenzialmente fino a contare 300 milioni di utenti) si possono trovare racconti, romanzi, saggi, abbozzi di sceneggiature (come del resto avviene su piattaforme occidentali diffusissime, vedi Wattpad). Tutto più o meno gratis, al livello più basso della piramide: la gente clicca, legge, commenta, vota e soprattutto – ci si augura – condivide. Solo se il fenomeno funziona, entra in scena l’editore, felice di lanciarti (stavolta a pagamento) non sugli scaffali ma sulle piattaforme degli ebook. Da noi in Italia, dove i dati sulla lettura sono deprimenti, non può non far effetto la notizia che i ragazzi cinesi sotto i 30 anni passano una media di mezz’ora al giorno leggendo sullo smartphone. E non solo sullo smartphone: la Cina è la miniera d’oro del kindle, tanto che ormai i digital readers cinesi superano i 300 milioni e il libro cartaceo si avvia a diventare vintage.
Ovvio che il metodo finisca poi per rispecchiarsi nel contenuto. Si prenda uno dei più clamorosi successi cinesi del nuovo millennio, Stories about Ming Dynasty. Come nacque il libro, destinato a superare in Cina i 5 milioni di copie? Semplicissimo: Dangnian Mingyue pubblica un giorno un post su Tianya Club (un po’ come dire il Facebook cinese), raccontando il fondatore della Dinastia Ming. Gli utenti lo trovano interessante, cliccano, apprezzano, condividono, chiedono in massa di continuare. Genesi di un bestseller: un post dopo l’altro, Dangnian Mingyue mette insieme una tale mole di materiali da competere con Guerra e pace, e infatti nel 2009 qualcuno gli consiglia di mettere in fila i post facendone un libro… Avete anche voi uno strano effetto déjà-vu? Sissignore: è in fondo la versione digitale del romanzo a puntate dell’Ottocento, quello di Tolstoj, di Dostoevskij, di Balzac e Victor Hugo. Anche lì, in fondo, il romanzo si conquistava i lettori con le sue forze, settimana dopo settimana, e noi oggi non leggeremmo Pinocchio se non fosse che centinaia di italiani – contro ogni aspettativa dello stesso Collodi – ne amarono alla follia le prime puntate, nel 1881.
E fu così che una «bambinata» (definizione dell’autore) fu trasformata in uno dei massimi boom editoriali di sempre. Ora, io credo non sia affatto casuale questo recupero del nostro romanzo a puntate (meccanismo a cui non si è sottratto neppure l’altro grande successo editoriale cinese degli ultimi anni, il fantascientifico The three bodies di Liu Cixin): non scordiamo che la Cina è da almeno trent’anni una consumatrice (e produttrice) ingorda di serie tv, peraltro anch’esse diffuse principalmente sul web con miliardi di visualizzazioni. La struttura a puntate è caratteristica imprescindibile delle serie, e non meraviglia che informi di sé anche la narrativa letteraria. A testimoniarlo è la scalata nella classifica libraria del romanzo In The Name of the People di Zhou Meisen, la cui pubblicazione ha ricalcato i tempi della messa in onda della serie tv tratta dal libro, spietato apologo sulla corruzione.
E su questo punto mi soffermerei: l’esplosione del settore editoriale cinese non è solo sintomo di una virtualizzazione del libro, bensì di una radicale trasformazione nella concezione stessa della scrittura. Il libro è divenuto un prodotto analogo in tutto alla serie tv, alla clip musicale, al videogame, e come tale obbedisce a regole totalmente commerciali. La narrazione scritta è come quella visiva, deve soddisfare in tutto le aspettative del consumatore, che in essa cerca l’esclusiva soddisfazione di un bisogno più emotivo che intellettuale, più affettivo che cerebrale, inteso come migrazione evasiva in una realtà diversa.
Manca in fondo del tutto, alla Cina, il nostro innato senso di rispetto per chi scrive, e con esso il primato perfino eccessivo che riserviamo al binomio autore-opera, bollando come infame quello fra opera e lettore. Ma dopo lunghissimi anni di censure pubbliche che hanno azzerato identità e chiaroscuri, la più grande nazione asiatica non poteva che approdare a questo esito: il libro esiste per chi lo legge. Per adesso qui è legittimo sorriderne. Domani forse. Dopodomani toccherà farci i conti.