La Stampa, 28 maggio 2019
Le pazze note spese di Hemingway
I grandi inviati di guerra, nel Novecento, spendevano cifre considerevoli. Era del resto l’età dell’oro della stampa quotidiana, e a parte gli strani acquisti di William Boot in L’inviato speciale, irresistibile romanzo di Evelyn Waugh, c’è l’esempio luminoso di Luigi Barzini che spedito ventiseienne a seguire in Cina la guerra dei Boxer, proprio all’inizio del secolo, non si peritava di chiedere rimborsi al Corriere della Sera per pelliccia, berrettone, guanti, stufa, carbone, cavalli, «tutte cose assolutamente indispensabili col freddo che fa. E così pure il whisky», come scriveva inviando le mitiche note spese: che gli venivano peraltro puntualmente pagate.
Non «così» accade a Ernest Hemingway, quasi messo secolo dopo, sul teatro della Seconda guerra mondale e della liberazione di Parigi. Ma «Papa», come si faceva chiamare, esagerava. Era il principe degli scialacquatori, tanto che viene il dubbio ci fosse una componente di provocazione e beffa: o almeno, il dubbio arriva dopo molti anni, leggendo un documentatissimo saggio appena pubblicato sulla Columbia Journalism Review da Peter Moreira, che ha dedicato uno studio anche alle sconosciute avventure cinesi (100 giorni nel ’41) del grande scrittore: i cui rapporti spesso tormentati con la stampa sono del resto parte integrante dell’opera.
Il giornalismo gli serviva per i libri. Giovanissimo reporter per il Kansas City Star, Hemingway aveva guidato un’ambulanza (sponsorizzata dal giornale) sul fronte italiano della Prima guerra mondiale; poi dal ’20 al ’24, corrispondente da Parigi del Toronto Star, inventò la «lost generation». Ma fu nel secondo conflitto che superò sé stesso, e non solo dal punto di vista del portafoglio. Ricorda Peter Moreira che nel ’44, a Londra, incontrando il collega Roald Dahl, squisito umorista allora ufficiale nella Royal Air Force, gli raccontò d’aver visto un soldato americano, sulla spiaggia di Omaha, saltare fuori da un carro amato in fiamme. Dahl commentò che era una bella scena per il prossimo pezzo destinato a Collier’s, il settimanale americano per cui Hemingway lavorava. La risposta fu: «Neanche per sogno: me la tengo per un libro».
Quelli di Collier’s non lo vennero mai a sapere, ma tutto sommato avevano già capito di non aver fatto una scelta fortunata. I pezzi dello scrittore erano straordinari, per certi aspetti, ma per altri piuttosto deludenti: più che raccontare i fatti, raccontavano Hemingway, con la sua personalità debordante, eroico in mezzo ai fatti. Il che, giornalisticamente, non è il massimo, anche se non è un comportamento così raro. Collier’s vendeva 2,8 milioni di copie ed era considerata di qualità «stellare«. Stellare era anche Hemingway, va da sé. Per la prosa e per la vita. Aveva appena avuto, ad esempio, un grande momento di gloria nel ’44 perché, arrivato tra i primi a Parigi, si era precipitato a «liberare»rmi alla mano, il bar del Ritz, teatro dei suoi anni giovanili: le truppe alleate lo trovarono già lì, circondato di bottiglie.
Fu probabilmente l’unica volta che l’intera operazione si risolse a costo zero, nel generale entusiasmo. Per il resto, la nota spese inviata a Collier’s fu invece strepitosa: 13 mila dollari, cifra che attualizzata ne varrebbe oggi 187 mila. C’era di tutto: 680 dollari a Londra per auto e autista, 220 per biancheria, giornali, mance, quasi duemila per inviti e bevute, e a Parigi anche l’affitto di una carrozzella a cavalli «per brevi viaggi». Faceva poi notare, generosamente, che non chiedeva invece nulla per una Mercedes distrutta dal fuoco nemico. Vero è che vigeva il mercato nero, e i prezzi erano incontrollabili, ma l’editore, William Chenery, non ne volle sapere.
Replicò a muso duro che fatti i conti, e detratti 4500 dollari di anticipi, era disposto a versare ancora 1500 dollari – che oggi sarebbero 20 mila. Hemingway incassò senza un lamento – anticipi compresi, aveva messo insieme un terzo della somma richiesta – e si dedicò ad altre imprese. Di lì a poco, in L’ultima minaccia, Bogart avrebbe proferito la celebre battuta: «È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Chissà se lo scrittore vide, e apprezzò, quel gran film. Ma ormai pensava certamente ad altro. Due anni dopo, nel ’54, il Nobel fu suo.