L’Economia, 27 maggio 2019
L’Europa costa poco
È una piccola Europa quella su cui il nuovo Parlamento dovrà legiferare. Il suo bilancio ammontava nel 2017 a 137 miliardi, un cinquantesimo dei 7 mila miliardi dei 28 bilanci nazionali, un centesimo dei 15 mila miliardi di Pil europeo; meno di un caffè al giorno per ogni cittadino, come spiega il sito dell’Unione.
La Ue restituisce ai cittadini il 93% di questa somma, spendendo sempre meno nella tradizionale politica agraria comunitaria e sempre più per investimenti, ricerca, aiuto alle regioni. Per piccolo che sia, il bilancio Ue dà ad alcuni Paesi più di quanto chiede loro: per Bulgaria e Lituania il beneficio netto è pari a quasi il 10% del bilancio nazionale; per Estonia, Polonia, Lettonia e Romania si aggira intorno al 5%, così come avviene per l’Ungheria del sovranista Viktor Orbán, che riceve in proporzione più della malridotta Grecia.
Nonostante combini ridotte dimensioni e significativi effetti, il bilancio Ue non sfugge a liti e polemiche: dal «we want our money back» thatcheriano alle minacce sovrano-populiste italiane di non versare il nostro contributo. Il tutto, magari, condito da qualunquismi assortiti su numero (60 mila) e costo (7% del bilancio) dei cosiddetti eurocrati, che in realtà sono meno dei dipendenti della Regione siciliana e pesano sui conti europei meno di quelli del Comune di Roma sul bilancio della città (21%).
Questa legislatura che si apre potrebbe essere il momento di impegnarsi seriamente per dare all’Unione europea fonti di finanziamento meno vincolate alla volontà dei singoli Stati. Giusto per non lasciarla alla mercé di paturnie e ricatti dei governi nazionali, come gli Usa del periodo confederale (1781-1788), prima che adottassero la loro attuale costituzione.
Il prezzo dell’UeOggi l’Ue dipende dagli Stati per quasi il 70% delle sue entrate, per lo più in forma di contributo calcolato in base ai Pil nazionali; viene poi un 15% rappresentato dall’80% dei dazi doganali e poi altre entrate. Questo è il modo in cui paghiamo, attraverso gli Stati, il prezzo dell’Ue. Come scrivevo a proposito del federalismo italiano, un buon sistema finanziario richiede invece che ogni livello di governo abbia entrate proprie, non solo per poterle manovrare a propria discrezione, ma, in questo caso, anche per sfuggire al dibattito su chi dà o riceve di più, inevitabile corollario di un sistema basato su contributi dei singoli Stati.
Tre proposte sono già sul tavolo: aumentare la percentuale dei dazi doganali di spettanza dell’Ue dall’80 al 90%, creare un’imposta sulle transazioni finanziarie e introdurre un prelievo sulle emissioni di CO2 dei combustibili fossili, la cosiddetta carbon tax, in grado di fornire circa 60 miliardi di nuove risorse all’Ue. E per ora potrebbero bastare. Ma non dovremmo perdere l’occasione per aprire un altro dossier, con lo scopo non di aggiungere un nuovo prelievo a quelli esistenti, ma di spostarne uno già esistente dagli Stati all’Ue: l’imposta sulle società.
I motivi sono almeno quattro. Primo, le società sono, verosimilmente, i soggetti che più di tutti hanno beneficiato del mercato unico europeo, risultato che neppure i sovranisti sembrano voler mettere in discussione. Appare pertanto coerente che chi gode di tale beneficio ne paghi il corrispettivo a chi lo garantisce, cioè l’Ue. Poi, proprio perché le società sono sempre più spesso transnazionali, i singoli Paesi potrebbero intendere il gettito di tale imposta come meno «nazionale» rispetto a quello delle persone fisiche, a cui invece corre il pensiero dei governi quando si parla di «soldi dei contribuenti» da non regalare ad altri Paesi.
Un terzo motivo è che già oggi è sotto accusa il criterio di ripartizione tra i singoli Stati dei profitti conseguiti da imprese multinazionali, in particolare digitali. Quello attuale si basa sul luogo in cui si trova la sede «materiale» della società, non di rado fittizia, e dà origine a fenomeni di elusione fiscale, con tassazione nulla o bassa dei profitti. Trasferire l’imposta sulle società a un ente sovranazionale risolverebbe alla radice il problema di individuare nuovi criteri di ripartizione della stessa fra i vari Paesi, almeno nel territorio dell’Unione europea. Nel caso dell’Ue potrebbe anche saldarsi con il progetto comunitario di base imponibile comune per i gruppi, la Ccctb.
Infine, usare il trasferimento (graduale) all’Ue dell’imposta societaria come un mezzo per contrastare l’elusione fiscale da parte delle multinazionali potrebbe garantire il sostegno della pubblica opinione, e quindi dei governi. Si tratterebbe di mettere in moto un «populismo democratico», come quello che, dalla fine dell’Ottocento, prese di mira i grandi monopoli Usa, creati dai robber barons (i grandi capitalisti americani di quell’epoca), e giunse nel 1909 all’adozione proprio dell’imposta societaria come prima imposta federale sul reddito.
Il paradossoIl processo di centralizzazione di un’imposta sopra descritto non è una novità. Chi conosce la storia sa che la creazione di quello che Schumpeter ha chiamato lo «Stato fiscale» ha richiesto proprio questo: tributi che prima andavano a vantaggio di singoli ceti (gli ecclesiastici o i feudatari) o di singole parti di un Paese sono stati via via portati al livello del governo centrale. Un processo che è stato parte essenziale di quello più vasto noto come «State building» o «nation building» e l’esito del quale è proprio quello ferocemente difeso dai sovranisti: lo Stato-nazione. Qui sta il paradosso sovranista: ostacolare un processo storico di aggregazione (stavolta a livello europeo) di parti divise in un insieme più vasto in nome di soggetti (gli attuali Stati) che sono essi stessi frutto di quel processo. Con il risultato di negare peso, forza e coesione all’unica unità politica a disposizione di noi europei – l’Europa – oggi in grado di competere con i soggetti globali (Usa e Cina), lasciando ad affrontarle gli ormai inadeguati Stati-nazione europei. Davvero credono – per parafrasare Manzoni – che sarà l’Italia (o l’Ungheria!) l’untorella che spianterà il mondo?
George Santayana diceva che chi non conosce la storia è costretto a riviverla. La dabbenaggine dei sovranisti di oggi è ancora più profonda e provinciale: non solo non conoscono la storia e sono costretti a riviverla (e noi con loro). Non si accorgono neppure di riviverla.