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 2019  maggio 27 Lunedì calendario

Intervista a Mauro Ferrari, presidente dell’European Research Council

L’appuntamento telefonico è per le 11: a Houston, Texas, però sono le 4 del mattino. Superato l’imbarazzo di chiamare un numero fisso in piena notte, si scopre che per Mauro Ferrari, friulano, sessant’anni a luglio e da dieci giorni nominato presidente dell’European Research Council (Erc), è normale essere in attività a quest’ora: «Dormo poco da sempre e le idee migliori mi vengono la mattina presto. Per anni ho cercato di curare questa che credevo una malattia del sonno, ora ne approfitto». 
Sarà anche per via dell’insonnia che questo scienziato, partito 38 anni fa dalla periferia di Udine per Berkeley con una borsa di studio, è riuscito a comporre un curriculum accademico e professionale chilometrico: direttore del dipartimento di Ingegneria biomedica alla Ohio State University, consulente del National Cancer Institute a Bethesda, dove ha diretto il lancio del programma federale Usa in nanotecnologia applicata al cancro, poi professore di nanomedicina e di terapie sperimentali, infine presidente e amministratore delegato al Methodist Hospital Research Institute, negli ultimi dieci anni. Dal 1° gennaio 2020 sarà al vertice dell’agenzia che distribuisce le più ricche e prestigiose borse ai ricercatori europei: un bilancio che sarà di 16,6 miliardi di euro per i prossimi sette anni. «Come ci sono riuscito? Dormo poco e ho avuto più tempo degli altri per studiare», scherza al telefono. Intanto però la sua giornata non si concluderà tanto presto. «Stasera suono, in un locale qui a Houston con Johnny Boy e Milton Hopkins, è un appuntamento settimanale». Da quando è arrivato a Houston ha riscoperto il sax, si è messo gli stivali da cowboy e ha preso lezioni di blues. 
Professore, come è che dopo 38 anni negli Stati Uniti ha scelto di tornare in Europa? 
«È il momento giusto. Da febbraio ho lasciato il vertice del Methodist Research Hospital: ero arrivato che il centro era appena nato e in dieci anni è diventato uno dei principali enti di ricerca medica con duemila dipendenti e ricercatori clinici accreditati, più di mille protocolli in tanti settori della medicina, e investimenti di ricerca di centinaia di milioni di dollari. Ora voglio mettermi al servizio degli scienziati europei e penso che si possa fare anche in Europa quello che più in piccolo ho avuto l’opportunità di fare negli Stati Uniti». 
Che cosa vorrebbe cambiare nella ricerca europea? 
«Non credo che la prima cosa da fare sia cambiare la filosofia dell’Erc: i finanziamenti vengono attribuiti in base al merito scientifico, non sono i burocrati ma gli scienziati che decidono in base alla loro esperienza come distribuire i fondi; le idee poi vengono dai ricercatori, non sono dettate dall’alto: sono loro a dire su cosa vogliono lavorare. E infine la grande ricchezza strategica europea risiede nel fatto che nel programma sono compresi tutti i tipi di scienza: dalla matematica alla biologia, alle scienze sociali, alle materie classiche, le cosiddette humanities. È la diversità dei saperi ai quali si riconosce uguale dignità: questa è la grande forza dell’Europa, il sostrato da cui veniva Leonardo, artista e ingegnere. Ho pensato che questo incarico fosse irresistibile». 
Come è diventato scienziato e quando ha capito che la scienza era la sua passione? 
«All’università non ero uno studente eccezionale, anzi forse ero un po’ scarso. Non ero svogliato ma distratto, volevo anche fare altro: ero giocatore di basket, mi sono dovuto fermare dopo un incidente che mi ha costretto ad un anno di riabilitazione. Dopo il liceo mi ero iscritto ad Astronomia a Padova, ma intanto tentavo anche la carriera da allenatore. Studiavo ma non riuscivo a frequentare i laboratori, così al terzo anno sono passato a Matematica per non perdere l’anno. Me la cavavo, prendevo 22, 23 agli esami. Ero il primo della mia famiglia che andava all’università e questo crea una grande insicurezza, ansia di riuscire, uno stress che si ripercuoteva sul profitto». 
Poi però si è messo a studiare ed è andato a Berkeley? 
«Alla fine sono riuscito ad avere una borsa di studio per Berkeley per fare una tesi sulla relatività e la cosmologia. Ero stato negli Stati Uniti e mi era piaciuto, volevo provarci. Mi ero appena sposato e avevo venduto la mia 127 per pagare il biglietto a mia moglie, eravamo partiti all’avventura. Letteralmente non avevamo un dollaro. Ma ho capito che volevo restare e che dovevo studiare. E ce l’ho fatta. Mi hanno finanziato il master e il Phd. Non c’era posto ad Astronomia ma ad Ingegneria: mi sono “riconvertito” e non me lo sono lasciato scappare». 
Dunque flessibilità e grande lavoro. 
«Sì, diciamo che mi sono tirato su le maniche. Poi mi hanno assunto come professore in Scienza dei materiali, pensavo di avercela fatta. Sono arrivati i figli, prima Giacomo che oggi lavora a Seattle e poi due gemelle Kim e Chiara che fanno le disegnatrici di cartoni animati. Ma mia moglie si è ammalata di tumore. Marialuisa è morta in un anno a mezzo. Aveva 32 anni. Un momento terribile, credevamo di poterci finalmente vivere la vita e invece... la morte, la sofferenza, i figli piccoli». 
E come ce l’ha fatta? 
«Durante quei mesi in cui sapevamo che non c’era niente da fare, bisognava dare un senso a tanto dolore. Ho scoperto che per il cancro ci sono tante medicine disponibili ma che il problema è come farle arrivare alle cellule malate e solo a quelle senza uccidere anche quelle sane. Lì ho capito che si poteva fare qualcosa con le nanotecnologie: io facevo modelli matematici per microchip. Ma un’intuizione non fa una scoperta, ci sono voluti anni e tanti fallimenti per arrivare ai risultati». 
Lei non è neppure un medico. 
«No, le ultime nozioni di biologia erano ferme alla seconda media, ma di fronte ai problemi bisogna fare l’inventario di quello che si ha. Nel 2002 l’Istituto nazionale dei tumori americano mi chiama per organizzare un programma federale per sviluppare nuovi farmaci antitumorali. Non sono uno specialista ma posso mettere insieme, proprio perché ho diverse formazioni, i talenti per far partire lo studio, che è stato il più grande del mondo. Oggi quasi il 10 per cento dei farmaci tumorali contengono scoperte fatte durante quegli anni». 
Ha mantenuto i rapporti con l’Italia?
«Non solo tifo ancora Udinese, oltre che il Milan per via di Rivera, ma in questi anni sono tornato tutti i mesi a trovare mia mamma Flavia, che oggi ha 85 anni. Dopo la morte di Marialuisa ho rincontrato Paola, anche lei friulana, che conoscevo dall’infanzia. Ci siamo sposati e abbiamo avuto due gemelle. Ilaria, che è ingegnere, e Federica che è diventata, devo dire non senza mia sorpresa, una missionaria dei mormoni». 
Lei è religioso? 
«Sì, sono cattolico, ma qui a Houston frequento anche la chiesa metodista di Saint John downtown». 
Nel 2013 in Italia lei venne indicato per guidare la commissione ministeriale su Stamina, ma disse: «È il primo caso importante di medicina rigenerativa in Italia», e non se ne fece niente. 
«Dissi che non ero né a favore né contro, perché semplicemente non avevo ancora fatto la mia indagine. Mi si gettarono contro con furore. Non ebbi mai nessun contatto con Stamina, non avrei mai dato quella cura a un malato. Ma ero venuto in Italia a mie spese ed ero andato a parlare con le famiglie dei malati che manifestavano davanti al Parlamento, volevo farmi un’idea del perché fossero lì. La cosa fece scalpore, per me era normale». 
Per quanto riguarda l’Erc, l’Italia ha molti ricercatori che ottengono i finanziamenti, ma pochi che li «spendono» in patria, gli altri lavorano all’estero. Come può cambiare? 
«La mobilità nella scienza non è un male, anzi, così come la diversità di culture è una ricchezza. Noi scienziati non dobbiamo temerla».