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 2019  maggio 27 Lunedì calendario

Appunti sulla fusione Renault-Fca

Paolo Griseri, la Repubblica 27/5 
Questa mattina Renault e Fca romperanno il silenzio sul matrimonio industriale più importante del secolo. Difficile infatti che le autorità di Borsa, italiana e americana, stiano a guardare senza chiedere spiegazioni ai protagonisti dei rumors di queste ore. E difficilmente i due costruttori si faranno trovare impreparati.
Che la trattativa sia in corso è ormai certo. Ed è abbastanza probabile che, almeno in questa prima fase, sia un dialogo a due, tra Parigi e Torino, con i giapponesi che stanno a guardare. Spettatori interessati, ovviamente. E, forse, un po’ diffidenti. Perché dopo essere rimasti per molti anni in posizione di minoranza nell’alleanza con Renault erano riusciti, complici le disavventure giudiziarie di Carlos Ghosn, a recuperare il terreno e a far pesare il loro ruolo. Da tempo infatti erano quelli di Tokyo i soci forti dell’alleanza tra Renault e Nissan. Erano i giapponesi a fare gli utili nonostante il fatto che fosse Parigi il socio di maggioranza. Così come sono gli americani di Jeep i veri titolari dell’utile di Fca nonostante il fatto che la proprietà sia europea. Una simmetria, quella dello sbilanciamento tra proprietà e utili, che potrebbe anche favorire il progetto della grande alleanza aiutando a riequilibrare i pesi interni a ciascun gruppo. Certo per i giapponesi, che si ritenevano vicini a un ritorno di peso a loro favore, la novità è di quelle che rimettono tutto in gioco. Per Fca, infatti, un’alleanza con la sola Renault, senza la parte giapponese, sarebbe assai meno appetibile. Perché alleandosi con Nissan il Lingotto potrebbe aprirsi la strada sui mercati asiatici. Senza l’alleato nipponico, invece a guadagnarci sarebbe soprattutto Renault, che si vedrebbe aprire da Fca il mercato americano.
Quali conseguenze avrebbe per l’Italia la fusione? In queste ore i sindacalisti (Michele De Palma per la Fiom e Marco Bentivogli per la Fim) hanno chiesto, ciascuno con i suoi toni, un intervento del governo nella vicenda. Difficile che da Palazzo Chigi giungano segnali in questi giorni, tutti impegnati a commentare gli esiti elettorali. «Se un governo non sa valutare qual è il peso dell’automotive sull’economia italiana, è meglio che cambi mestiere» dice il segretario della Fim. Come lui anche De Palma paventa «il rischio di sovrapposizioni produttive tra i due costruttori». Uno scenario che, nel medio periodo, finirebbe per mettere a rischio i posti di lavoro. Per la verità tra tutti gli stabilimenti italiani l’unico che potrebbe rischiare è quello di Pomigliano. Perché realizza un’utilitaria, la Panda, che non è dissimile da altri prodotti francesi dello stesso segmento. E perché tra pochi mesi uscirà il piccolo suv dell’Alfa Romeo, che potrebbe finire in concorrenza con i piccoli fuoristrada della Nissan. Ma è altrettanto vero che dal Giappone apprezzano molto i marchi del lusso italiani se ieri l’agenzia Nikkey sosteneva che quello del polo del lusso potrebbe diventare uno degli atout per convincere Tokyo a entrare nella partita.
Ma molto dipenderà da come si svilupperà la trattativa concreta, con quali scambi azionari e con quanti attori. Paradossalmente la parte italiana di Fca potrebbe guadagnarci in peso perché finirebbe per aumentare il ruolo, nel mega gruppo, del polo europeo oggi indubbiamente in secondo piano nel pianeta Fiat-Chrysler.
Ma soprattutto, se davvero si realizzerà il grande gruppo nippo- franco-italo-americano con i suoi 15,5 milioni di auto vendute all’anno potrà trattare da pari a pari con i colossi dell’Ict come Google. Perché avrà le dimensioni giuste per chiedere ai giganti della connettività una sorta di esclusiva sui sistemi di mobilità autonoma. Un passaggio decisivo. Verso quel mondo in cui, come diceva anni fa il numero uno di Volkswagen, Martin Winterkorn, «le auto saranno dei cellulari con le ruote».


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Vittoria Puledda, la Repubblica 27/5
«È un’alleanza dettata da asimmetrie da correggere. Per questo potrebbe funzionare. Ma che sia un bene per Fca non significa che sia un bene anche per l’Italia: su questo ho qualche perplessità». Giuseppe Berta, grande esperto del settore auto, insegna Storia contemporanea all’Università Bocconi.
Partiamo dalle asimmetrie.
«Renault ha la necessità di rafforzarsi, con una mossa autonoma, dopo che Nissan è diventata il soggetto più forte di questa alleanza atipica franco-nipponica. Per Fca invece si tratta di riequilibrare i pesi geografici, visto che il grosso dell’attività è negli Usa, ma anche di colmare un’asimmetria nei modelli».
Pensa all’auto elettrica?
«L’anno scorso le due vetture elettriche più vendute in Europa sono state Zoe (Renault) e Leaf (Nissan). Fca ha investito molto poco in questo settore e potrà trarre beneficio dalle competenze dell’altro gruppo. Ma qui è il punto: che ne sarà per esempio della 500 elettrica, in produzione dal prossimo anno a Torino? E più in generale, cosa accadrà degli altri stabilimenti?»
Fca può puntare su marchi storici in Europa, da Maserati a Ferrari e Alfa Romeo.
«Anche qui, che ne sarà di loro? Ci sono stati forti deficit di investimenti su questi marchi e per il rilancio servono grandi risorse: la nuova alleanza li prevederà? Per questo dico che le prospettive della produzione automobilista italiana non mi sono chiare, in questo quadro. Del resto, lo stesso futuro dell’industria automobilistica non è chiarissimo, se non il fatto che si sta andando verso la produzione di sistemi di trasporto piuttosto che di autovetture».
Renault ha un socio forte, lo Stato. È un problema?
«Diciamo che è una presenza molto condizionante. Che non avrebbe contrappesi in Italia».


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Bianca Carretto, Corriere della Sera 27/5
L’uscita di scena di Carlos Ghosn e Sergio Marchionne ha indubbiamente facilitato l’unione tra Renault e Fiat Chrysler (i due personaggi non potevano sopportarsi). Il Governo francese aveva dato ordine a Ghosn di considerare irreversibile l’alleanza con Nissan, il costruttore giapponese, invece, voleva più potere, da qui è nata l’operazione di smantellamento di Ghosn. La nomina di Jean-Dominique Senard a capo di Renault ha facilitato l’incontro con la casa italo/americana. A questo punto entra in scena John Elkann che, nella sua veste di presidente di Fca, esercita le sue funzioni con assoluta autonomia essendo il proprietario del gruppo. Elkann e Senard hanno una frequentazione pluriennale anche grazie alla comune appartenenza al gruppo Bilderberg: incontri privati, promossi da David Rockefeller. Alle riunioni annuali, super riservate, partecipano personalità internazionali del campo economico, politico e bancario.
Elkann ha iniziato a tessere la sua tela incontrando prima Senard con cui ha stabilito i dettagli della possibile unione, poi ha chiesto l’avvallo del presidente francese Emmanuel Macron, in una visita all’Eliseo. La scorsa settimana Elkann è partito per una missione in America Latina con la motivazione di festeggiare la presenza di Fiat, in Argentina, da 100 anni. L’occasione ha consentito due colloqui, uno con il presidente argentino Mauricio Macri e un altro con quello brasiliano, Jar Bolsonaro, ai quali, oltre a dettagliare gli investimenti nella fabbrica di Betim (Brasile) e Cordoba (Argentina), ha sicuramente annunciato l’ingresso di un nuovo player. Renault, infatti, potrebbe ulteriormente espandersi in Sud America e entrare nel Nord America: questa potrebbe essere una delle ragioni di scambio all’interno di questa fusione. Fca, un mese fa, ha comunicato delle novità che riguardano la Cina: è stato nominato Massimiliano Trantini presidente di Guangzhou Automobile Group Fiat Automobiles Sales Co.Ltd. Renault, pur essendo affermata in Cina, potrebbe anche usufruire della struttura di Fca. La casa parigina potrà, a sua volta, fornire piattaforme di tecnologia elettrica, specialmente del segmento B (il più diffuso globalmente) per consentire a Fca di accelerare la produzione di modelli a zero emissioni.


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Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore 27/5
In molti danno già per fatta la creazione del principale gruppo automobilistico mondiale, ma appare prematuro parlarne in quanto sullo scenario nascente da un accordo tra Fiat Chrysler e Renault grava la grande incognita dell’atteggiamento della giapponese Nissan, alla quale fa capo in esclusiva la partecipazione minoritaria e il controllo di fatto della quarta Casa potenzialmente coinvolta, Mitsubishi Motors. 
Vengono al pettine i nodi dell’anomala strutturazione dell’alleanza franco-nipponica (risalente per lo più al 1999, quando la Casa francese intervenne per salvare il neopartner dallo spettro della bancarotta): Renault controlla oltre il 43% del capitale Nissan, la quale ha a sua volta il 15% senza diritto di voto in Renault ed è entrata nel 2016 con il 34% in Mitsubishi Motors. L’idea di una maggiore integrazione perseguita da Carlos Ghosn è entrata in stallo con l’arresto a Tokyo, nel novembre scorso, del top manager, che poi ha accusato l’attuale ceo di Nissan, Hiroto Saikawa, di aver architettato un complotto a suo danno proprio per evitare una evoluzione che avrebbe potuto portare sotto sostanziale controllo francese i due gruppi nipponici. Ancora il 14 maggio scorso Saikawa ha detto che intende concentrarsi sul riassetto della società nel post-Ghosn, indicando di non voler nemmeno avviare discussioni con il partner francese – che è tornato a sollecitarle – sul futuro dell’alleanza. D’altra parte, mercoledì scorso il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, dopo un incontro a Parigi a margine di un vertice Ocse con l’omologo giapponese Hiroshige Seiko, ha espresso l’opinione che l’attuale alleanza diventerebbe insostenibile senza procedere a cambiamenti: «Lo status quo non è possibile», ha detto, in quanto «indebolisce l’alleanza nel suo complesso. Si deve andare avanti, nello sviluppare e rafforzare l’alleanza». Un modo per farlo, ha suggerito le Maire, è che il presidente Jean-Dominique Senard intavoli negoziati con i responsabili di parte giapponese dell’alleanza. Seiko si è limitato a dichiarare in modo generico il suo pieno appoggio a un approfondimento delle relazioni di cooperazione. Il lato politico della faccenda non è trascurabile. Non è un mistero che per il governo giapponese (anche se non l’ha mai espresso ufficialmente) sia un problema non solo la partecipazione del 15% dello Stato francese in Renault, ma anche una scenario che possa mettere sotto controllo straniero due icone della Corporate Japan come Nissan e Mitsubishi Motors. A rinviare a un futuro al momento poco chiaro, dunque, non è solo il «non è il momento» detto a metà maggio da Saikawa a proposito delle ultime avances di Renault, che ha proposto la costituzione di una holding comune. 
Nulla potrà succedere prima dell’assemblea degli azionisti di giugno della Nissan, dalla quale dovrebbe scaturire un nuovo board con un ampliamento dei membri indipendenti e l’avvio di una nuova struttura di governance. Peraltro la posizione di Saikawa come Ceo non appare solida, sia perché oggettivamente corresponsabile (almeno secondo la mentalità giapponese) di decisioni prese nell’ultima fase dell’era Ghosn sia per l’insoddisfazione degli azionisti (al di là di Renault) per l’accelerazione del declino della performance societaria sia sul mercato automobilistico sia in Borsa (questo mese il titolo ha perso un altro 17%, calando ai minimi da 7 anni). Lunedì scorso Moody’s, abbassando il rating di Nissan, ha evidenziato la continua discesa della redditività aziendale: se pure il nuovo management intende concentrarsi sui margini e non più sulla crescita delle vendite, ha osservato l’agenzia di rating «occorreranno parecchi anni per dimostrare il successo di questa strategia».
Di certo una fusione Renault-Fca avrà un forte impatto su future trattative franco-giapponesi. Ma potrebbe rappresentare anche un piano B di Parigi nell’eventualità che Ghosn abbia ragione, e cioè che il “sistema Giappone” preferisca persino una ipotesi di progressivo disimpegno dall’alleanza a uno scenario di fusione che dovesse rischiare di minare l’autonomia di due delle principali Case automobilistiche nipponiche.


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Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 29/5 
C’è un lato di questa maxi-operazione tra Fiat e Renault che non viene molto sottolineato in questi giorni: Renault è un’impresa francese, con lo Stato azionista (15 per cento). Ma l’Italia gialloverde non era in pessimi rapporti con l’Eliseo di Emmanuel Macron? Qualche mese fa, il premier Giuseppe Conte cancellava visite a Parigi, i Cinque Stelle incontravano rappresentanti dei Gilet gialli, la Lega di Matteo Salvini attribuiva le peggiori nefandezze al presidente francese che con i suoi poliziotti sconfinava addirittura Oltralpe per fermare i migranti. Da parte sua, Macron usava l’Italia come bersaglio di ogni attacco anti-sovranista. Sui fronti industriali le tensioni si vedevano eccome: da Stx-Fincantieri alle nomine in STMicroelectronics. E ora, invece, Fiat-Renault passa così liscia? Addirittura con il sovranista Matteo Salvini che celebra l’evento come “una buona notizia”? Come racconta Ettore Boffano in questa pagina, la fusione è un’ottima notizia per gli azionisti, forse garantisce un futuro a due gruppi che avevano bisogno di crescere. Ma è tutto da dimostrare che sia una lieta novella anche per quel che resta dell’indotto italiano dell’automotive. Eppure stavolta la politica tace.
Ci sono due ipotesi. La prima è che la campagna elettorale e i suoi sorprendenti risultati abbiano assorbito tutte le energie mentali dei leader di partito e dei ministri. Se così fosse, il presidente di Fca John Elkann è stato un mago del tempismo. L’altra ipotesi è che il via libera del governo italiano sia arrivato in cambio di qualcosa che ancora non conosciamo. Nel 2011, per esempio, Silvio Berlusconi decise di non opporsi alla scalata di Lactalis alla risanata Parmalat. E poco dopo il presidente Nicolas Sarkozy schierò la Francia a sostegno della nomina di Mario Draghi alla Bce, forse l’unica scelta politica di cui possiamo essere grati a Berlusconi. E oggi qual è la contropartita? Oppure dobbiamo dedurre che tutte le tensioni con Parigi erano solo dovute a una infinita e permanente campagna elettorale?



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Ettore Boffano, il Fatto Quotidiano 29/5
L’aneddoto che gira sotto la Mole da ieri mattina è troppo bello per domandarsi se sia anche vero. Raccontano che lunedì, mentre la città attendeva i dati della sconfitta di Sergio Chiamparino alle Regionali, in uno dei palazzi della politica un dirigente della Fiom si sia imbattuto in un collaboratore della sindaca Chiara Appendino. “È in una riunione al piano di sopra – si sarebbe sentito dire il sindacalista – Ora salgo ad avvertirla. So che ti vuole parlare a tutti i costi della Fiat e di questo affare con i francesi. Aspetta un momento, vi faccio incontrare”. Dopo pochi minuti, però, il funzionario comunale è ridisceso con un sorriso mesto: “Ora non può, dice che si rifarà viva…”. Ecco, l’atmosfera che si respira nella Torino del dopo annuncio sulla fusione Fca-Renault – in vista di quell’accordo che, se riuscisse anche a placare la rissa tra i francesi e i giapponesi di Nissan, metterebbe in piedi il colosso dell’auto mondiale (con oltre 15 milioni di auto vendute all’anno) – è proprio questa: e oscilla tra l’indifferenza e l’inerzia.
Comprensibile, se si tiene conto che l’avvento dell’era Marchionne, con l’assorbimento della Chrysler e lo spostamento del baricentro del gruppo negli Usa, aveva già sancito la fine di un processo cominciato con la crisi aziendale degli anni Novanta del secolo scorso: la vecchia one company town, il posto fordista dove “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia” (secondo gli aforismi di Gianni Agnelli, osannati come vaticini), aveva smesso di pulsare come il cuore di un sistema fatto di storia e di tradizione. Sino all’estremo “oltraggio” del cambiamento del nome e del trasferimento delle sedi fiscali della Fca, inventata da Sergio Marchionne, ad Amsterdam e a Londra. Dunque, e con più di una ragione, poco di scandaloso (nel senso evangelico dell’opportunità che gli scandali avvengano) per una città che ha già visto materializzarsi di tutto attorno al suo vecchio feticcio chiamato Fiat. A cominciare dal fabbricone di Mirafiori, un tempo simbolo della produzione italiana e della lotta di classe con i suoi 60 mila lavoratori e, oggi, ridotta al lumicino di una cassa integrazione lunga un decennio e per soli 5 mila occupati (con l’indotto si arriva a 100 mila posti di lavoro).
Ma se il futuro non è più legato all’interrogativo sul ruolo guida del capoluogo piemontese, in una realtà che è ormai impossibile ridurre a una dimensione italiana, resta invece aperta la questione che riconduce la discussione ancora una volta sotto la Mole e in riva al Po. Proponendo un quesito che, per il momento, è stato frequentato solo dal sindacato: che cosa porterà l’alleanza Fca-Renault a Mirafiori e nelle altre fabbriche torinesi del gruppo? Come si concilieranno le sovrapposizioni e le conflittualità tra le diverse piattaforme produttive e che effetti avrà tutto questo per le sorti degli stabilimenti italiani? Infine, che sorte toccherà al progetto della 500 elettrica, che dovrebbe riempire ciò che resta di Mirafiori, e che destino avrà il mitico “polo del lusso” di quel piano di Marchionne esaltato nei commenti agli annunci di ieri (“Solo il suo straordinario lavoro e il rilancio di Fca ci hanno fatto trovare pronti all’appuntamento con Renault”), ma di fatto dimenticato nelle strategie attuali e nelle garanzie, soprattutto per l’Italia e ancora di più per Torino? La mancanza di Marchionne e, per paradosso, di quelle sue partite a carte in pizzeria con l’ex sindaco di Torino e poi governatore del Piemonte Chiamparino, aggiungono inquietudini e preoccupazioni (il manager era stato sempre il più credibile nell’assicurare una qualche continuità subalpina alla ex Fiat). Così come la circostanza che l’ormai sterminata pletora di discendenti del senatore Giovanni Agnelli, radunati nell’accomandita di famiglia, appare del tutto appagata grazie agli oltre 5 miliardi di dividendo distribuiti negli ultimi due mesi.
Una situazione su cui pesano le inerzie, prima ancora che del traballante governo Conte, della sindaca Appendino, i silenzi delle rappresentanze del mondo industriale torinese (se si escludo gli ossequi a John Elkann) e l’enigma su come intenderà muoversi il nuovo governatore Alberto Cirio, forza italiota ma a capo di una giunta a forte trazione leghista, rimasto zitto davanti alle prime indiscrezioni sulla fusione Fca-Renault, persino nelle ultime ore della campagna elettorale (come d’altra parte ha fatto Chiamparino).
Il tutto mentre in città, il nuovo dividendo da 2,5 miliardi distribuito ai soci per consentire la parità di quote al 50% con Renault, viene già giudicato come un avvio della diluizione di fatto dell’impegno della famiglia in Fca, resuscitando le similitudini con le vicende che hanno accompagnato, nel 2017, l’intesa tra il gruppo Itedi (La Stampa-Il Secolo XIX) e il Gruppo Espresso (Repubblica), diventati Gruppo Editoriale Gedi con la quota più forte saldamente in mano ai De Benedetti. Ma dove Elkann continua ad avere un peso addirittura superiore alla quota reale: lo stesso potrebbe dunque accadere un domani con Fca, realizzando l’obiettivo di intascare denaro (l’interesse che sta dietro molti membri dell’accomandita di famiglia e che è già stato soddisfatto, e in maniera cospicua, in queste settimane) e mantenendo un certo qual peso o almeno il prestigio, diversificando a quel punto gli investimenti di Exor e, infine, impedendo che si parli apertamente di una fuga degli eredi Agnelli dalla loro storia.


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Marigia Mangano, Il Sole 24 Ore 29/5
Lo scorso 15 gennaio, a Detroit, sono accaduti due fatti. Il primo, sotto gli occhi di tutti, è stato l’annuncio dell’accordo tra Volkswagen e Ford. Il secondo, più in sordina, è stata la presa di coscienza da parte di John Elkann, presidente di Fca, che non c’era più tempo da perdere: bisognava creare le condizioni per una grande alleanza. Secondo le testimonianze raccolte, insomma, quel giorno è scattato qualcosa. L’accelerazione nella ricerca del partner ideale di Fca, racconta chi questa fase l’ha vissuta da vicino, era tangibile, con il presidente di Fca concentrato su un unico obiettivo: dare forma a quel consolidamento tanto cercato in passato da Sergio Marchionne e condiviso dalla proprietà. Quasi istintivamente il primo pensiero è stato guardare in America, ripescando il vecchio disegno con General Motors. Fca, del resto, era profondamente cambiata rispetto a quella che aveva presentato Marchionne nel 2015. Ma il percorso industriale portato avanti dal Ceo Mary Barra e la più volte rivendicata autonomia del colosso americano, da sempre contrario a processi di fusione, avrebbe scoraggiato fin da subito un approfondimento dell’opzione. Da qui all’Europa il passo è stato breve. A partire dallo scorso marzo Elkann avrebbe organizzato gruppi di lavoro interni tra Torino e Detroit per vagliare le soluzioni europee più vantaggiose per Fca e per i suoi soci, inclusa Exor, ponendo come condizione primaria un partner capace di portare in dote significativi investimenti nell’elettrico e nella tecnologia. Analisi che avrebbero portato diritto in Francia alla Psa di Carlos Tavares e alla Renault di Dominique Senard. In qualche occasione accompagnato dal Ceo Mike Manley, il più delle volte in assoluta autonomia, Elkann ha gestito in prima persona i passaggi chiave dei negoziati, strategici e tecnici. Con viaggi sempre più frequenti a Parigi, dove ha casa, ha intavolato le prime discussioni con Tavares, vecchia conoscenza del numero uno di Exor, perché già in passato il dossier Psa era stato approfondito insieme a Marchionne. Ed era arrivato anche a un buon punto, salvo poi essere accantonato a causa delle resistenze della famiglia Peugeot. Proprio la struttura proprietaria sarebbe stata anche nei mesi scorsi un elemento che avrebbe giocato a sfavore del potenziale accordo. In Psa ci sono tre azionisti con il 14% ciascuno: la famiglia, lo Stato francese e il socio cinese DongFeng. Una questione di equilibri delicati, dunque. Ma anche di criticità industriali rilevanti. «Psa rappresentava una sovrapposizione di Fca e i valori di Borsa penalizzavano Torino», racconta un manager informato. Avviare un dialogo con Renault è stato così quasi naturale. Intanto perché almeno uno degli interlocutori, il governo francese, era stato già sondato. E poi perché rispetto alla casa concorrente, i fragili equilibri dell’alleanza tra Renault e il gruppo Nissan rappresentavano la condizione ideale per “sistemare” una partnership che ha sempre fatto fatica a decollare. Certo anche i valori di Borsa e la possibilità di spuntare altri ricchi dividendi per tutti gli azionisti di Fca hanno avuto la loro importanza. Ma il resto lo ha fatto quell’intesa, quasi immediata, con Senard. Al punto che Elkann non avrebbe avuto difficoltà, nell’ambito delle trattative, ad avvallare uno schema al vertice con il manager francese alla guida e il presidente di Fca nel suo vecchio ruolo.


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Paolo Griseri, la Repubblica 29/5
Nella galassia dell’auto nulla si muove senza provocare azioni e reazioni, esattamente come accade in astronomia. E in fondo anche l’alleanza tra Fca e Renault nasce come conseguenza di un precedente movimento, l’incrinarsi del rapporto tra i francesi e i giapponesi di Nissan dopo l’arresto di Carlos Ghosn. Così non è strano immaginare che il matrimonio tra Torino e Parigi, se, come pare andrà in porto, possa provocare o accelerare altri processi di fusione. Il risiko è inevitabile perché quello delle quattro ruote è un sistema che si regge su delicati equilibri.
A fine 2018 ha fatto scalpore l’annuncio che Volkswagen e Ford erano intenzionate a collaborare sul piano industriale. Non si è mai parlato in quel caso di uno scambio di azioni, come invece dovrebbe accadere tra Fca e Renault, ma certamente molti avevano immaginato che una fusione potesse essere l’obiettivo ultimo della mossa tedesca. Al Salone di Detroit, lo scorso gennaio, le due case avevano annunciato l’intenzione di accelerare i loro progetti di collaborazione industriale e di utilizzo congiunto degli impianti. Una soluzione che serviva agli americani per saturare le linee di montaggio e consentiva ai tedeschi di mettere un nuovo piede in Nordamerica dopo la vicenda dieselgate. Se il matrimonio italo-francese di cui si parla in queste ore si realizzerà, è possibile che la reazione di Volkswagen e Ford sia quella di accelerare il loro processo di avvicinamento. Un matrimonio tra Wolfsburg e Detroit creerebbe il primo produttore mondiale anche nel caso in cui Fca e Renault riuscissero a coinvolgere nel loro progetto i giapponesi di Nissan. Di fronte ai 15,6 milioni di auto prodotte dall’alleanza tra italiani, francesi e nipponici, il nuovo gruppo Volkswagen-Ford arriverebbe infatti a 16,5 milioni di auto vendute all’anno. Un processo di aggregazione molto spinto che finirebbe per consegnare a due soli costruttori un terzo dell’intero mercato mondiale delle quattro ruote.
Non sarebbero queste, probabilmente, le uniche mosse decise per reagire alla fusione tra Torino e Parigi. Prima di trattare con Renault, infatti, John Elkann aveva iniziato colloqui esplorativi con Carlos Tavares, patron di Peugeot. Ma Psa, che ha rilevato da General Motors la sua costola europea, Opel, ha avuto tempi di decisione molto più lenti di quelli dei cugini di Renault. E questo spiega i rumors su una forte irritazione di Tavares verso il Lingotto. La vicenda rivela comunque che anche Psa è in cerca di nuovi alleati e dunque non considera sufficente la dimensione raggiunta con l’acquisizione di Opel. Quale sarà ora il prossimo passo di Tavares? Il puzzle attende nuove tessere per diventare più chiaro.
Il processo, una volta avviato, tenderà a riprodursi fino a quando non si avranno al mondo tra i 4 e i 6 grandi produttori di automobili. A questi, naturalmente, andranno aggiunti i costruttori di alta gamma, titolari di marchi premium, che non basano la loro produzione sui grandi volumi ma sulla qualità di automobili di prezzo medio alto.
Tutta la galassia si muove comunque nella direzione di condividere i costi per risparmiare gli investimenti sulle piattaforme. Secondo Fca, l’alleanza con Renault potrebbe servire a ridurre costi per 5 miliardi all’anno. Una cifra alta. La strada è quella che aveva indicato, nel 2010, Sergio Marchionne quando, parlando agli analisti, aveva definito l’industria delle quattro ruote un «capital junkie», un drogato di capitale. Per dire che se non si fossero realizzate al più presto delle fusioni, ciascun produttore avrebbe gettato miliardi per le proprie piattaforme aumentando considerevolmente i costi di investimento. «I rischi in questa industria sono altissimi», aveva spiegato l’ad: «Investi miliardi e se sbagli modello li bruci tutti». Perché costruire auto allora? «Perché se azzecchi il modello giusto, il forno non brucia capitale ma sforna pane per anni e anni».


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Filippo Santelli, la Repubblica 29/5
Un paio di mesi fa il presidente di Renault Jean-Dominique Senard e l’amministratore delegato Thierry Bolloré si erano presentati in Giappone con una proposta di matrimonio. Appoggiati dal governo di Parigi, primo azionista, chiedevano a Nissan di cementare la loro alleanza dell’auto, trasformandola in un’unione societaria a tutti gli effetti. Il capo di Nissan Hiroto Saikawa, sostenuto dal suo esecutivo, ha risposto «no». Questa mattina i tre si rivedranno, ma Senard e Bolloré hanno una nuova promessa sposa: Fca. Le due società viaggiano spedite verso la creazione del terzo gruppo mondiale delle quattro ruote, e stando alle indiscrezioni l’annuncio ha colto in contropiede il sistema Giappone. La porta per Nissan (e per la controllata Mitsubishi) è aperta, ha ribadito ieri John Elkann. Ma la regia dell’operazione è chiaramente in Europa, Saikawa era all’oscuro. Nel board della nuova società Nissan avrà un consigliere, ma vedrà dimezzarsi la quota azionaria al 7,5% rispetto all’attuale 15 in Renault, contro il 43,3 detenuto da Fca-Renault nel suo capitale. Relazione ancora più sbilanciata.
Questi rapporti di forza nazionali erano già lo sfondo dell’inchiesta su Carlos Ghosn, secondo alcuni addirittura il movente del "colpo di Stato" ordito da Saikawa nei suoi confronti. Prima di essere travolto dalle accuse di reati finanziari, il manager voleva rendere l’alleanza tra Renault, Nissan e Mitsubishi indissolubile. Ipotesi sgradita al Giappone, visti gli equilibri a favore di Francia, frutto dell’epoca in cui Nissan era vicina alla bancarotta: per Tokyo avrebbe significato perdere il controllo di due campioni nazionali. Dopo aver rimpiazzato Ghosn, non solo Saikawa ha rispedito al mittente le nuove (e paritarie) proposte transalpine di unione, ma ha anche varato una diversa strategia basata sull’incremento dei margini, più che sul gigantismo delle vendite. Priorità che mal si concilia con la logica di Fca-Renault, fanno notare gli analisti. Al di là della frase di circostanza di Saikawa («sono aperto a qualsiasi discussione che punta a rafforzare l’alleanza») e del sussulto del titolo in Borsa, l’umore in Giappone è nero, spiffera a Bloomberg una fonte interna Nissan. L’azienda se la passa male: la ristrutturazione procede lenta e l’anno appena chiuso ha visto i profitti crollare del 45%. Per la prima volta in un decennio sono inferiori a Renault, tanto che lo stesso Saikawa è in bilico. La lettera del presidente di Fca John Elkann alla Nikkei Asian Review, media vicino all’establishment d’affari giapponese, è una mano tesa: «Ho molto rispetto per Nissan e Mitsubishi (…). La nostra proposta di fusione con Renault creerà il potenziale per costruire una partnership globale con tutte e tre queste grandi aziende». Per la futura Fca-Renault il rapporto con Nissan è decisivo, vista la sua solida presenza in Cina, primo mercato al mondo in cui le due hanno collezionato fiaschi. Oggi Senard e Bolloré illustreranno a Saikawa il piano di fusione e rimetteranno sul tavolo il futuro dell’alleanza con i giapponesi. Per una Nissan in crisi, romperla rischia di essere un suicidio. Ma per il complesso politico-industriale giapponese, già contrario all’abbraccio con i francesi, il colosso Fca-Renault è un partner ancora più ingombrante.