il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2019
Il riciclaggio attraverso le opere d’arte
L’arte è “la parola che non ha nessuna definizione”, come sostiene il “Dizionario del Diavolo” di Ambrose Bierce. Forse anche questa è tra le ragioni per le quali il suo mercato è tra i più esposti al riciclaggio. Mentre molti credono che le opere d’arte più importanti siano quelle esposte nei musei, molti indizi invece dimostrano che spesso chi le compra le seppellisce in anonimi e insondabili magazzini per nasconderle al Fisco e agli inquirenti grazie ai porti franchi, zone delimitate nelle quali le merci non pagano tasse o imposte né dazi doganali. Le vendite globali di opere d’arte l’anno scorso hanno raggiunto i 67,4 miliardi di dollari (60,7 miliardi di euro), in crescita del 6% sul 2017. È il secondo valore di transazioni più alto dell’ultimo decennio, con un incremento del 9% dal 2008. Alcuni esperti ipotizzano che attraverso l’arte lo scorso anno sia stato “ripulito” denaro sporco per almeno 2,4 miliardi di euro. Stima considerata in difetto, perché il riciclaggio in questo settore è ritenuto molto più alto rispetto ad altri mercati globali.
Il Gruppo di azione finanziaria internazionale (Fatf), la task force dell’Ocse contro la criminalità finanziaria, nel 2010 ha pubblicato un rapporto secondo il quale l’arte e i reperti archeologici sono particolarmente esposti al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. La Task force doganale del Governo svizzero afferma che i legislatori hanno prestato poca attenzione al riciclaggio nel mercato dell’arte. Secondo Transparency International, l’analisi dei milioni di documenti contenuti nei Paradise Papers rivela un alto numero di opere d’arte in mano a società di comodo nei paradisi fiscali. Ma la definizione di “paradiso fiscale” non indica solo alcuni Stati caraibici che rimpinguano le proprie entrate consentendo ai faccendieri del mondo intero di aprire società anonime. Molti considerano paradisi fiscali anche i porti franchi della vecchia Europa. La stessa Fatf registrava che nel mondo i porti franchi sono aumentati da meno di 100 nel 1975 a circa 3mila in 135 Paesi nel 2008. Un rapporto del 2014 dell’Ufficio federale svizzero di controllo (Cdf) ha rivelato un enorme aumento del valore dei beni immagazzinati in alcuni porti franchi doganali svizzeri, spinto soprattutto dai beni ad alto valore unitario come le opere d’arte. Il report stimava che nel solo porto franco di Ginevra fossero immagazzinate oltre 1,2 milioni di opere, alcune delle quali non erano uscite dai magazzini per decenni, per un valore di 90 miliardi di euro.
Queste aree “off limits” sono finite anche nel mirino della ricerca “I rischi di riciclaggio e di evasione fiscale nei porti franchi” pubblicata a ottobre 2018 da Ron Korver del Servizio di ricerca del Parlamento Europeo (Eprs). A novembre 2017 nell’Unione europea esistevano 82 zone franche, di cui due in Italia. Nella maggior parte dei porti franchi chiunque può introdurre merci per conto terzi senza svelare l’identità del beneficiario finale effettivo della transazione, autodichiarando senza controlli il valore registrato delle merci. Dunque è semplice nascondere l’identità del proprietario reale dietro società offshore, trust, fondazioni, prestanomi, anche perché gallerie d’arte o case d’asta sono ancora riluttanti a rivelare i prezzi pagati per le opere e, soprattutto, l’identità di compratori e venditori. Inoltre le merci nei porti franchi sono registrate come “in transito” ma possono rimanerci senza limiti di tempo. Così le opere immagazzinate possono essere vendute esentasse un numero illimitato di volte, senza mai uscire dai magazzini. Solo dal 10 gennaio 2020, con l’entrata in vigore nella Ue della quinta Direttiva antiriciclaggio, chi opera nei porti franchi e nel mercato dell’arte sarà obbligato alle regole antiriciclaggio.
Uno dei casi più eclatanti citati nel rapporto dell’Eprs è quello della famiglia Nahmad, nota mercante d’arte, che si ritiene proprietaria della più grande collezione mondiale di dipinti di Picasso a parte la famiglia dell’artista. Questi e altri dipinti nella loro collezione sono presumibilmente tenuti nel porto franco di Ginevra in attesa della vendita. Nel 2011 i fratelli Nahmad sono stati coinvolto nella richiesta di restituzione dell“Uomo seduto con bastone”, dipinto nel 2018 da Amedeo Modigliani, reclamato da un erede di Oscar Stettiner, il commerciante d’arte ebreo di Parigi che fu forzato dai nazisti a “vendere” la tela tra il 1940 e il 1944. Il dipinto stato acquistato per 3,2 milioni di dollari in un’asta nel 1996 dall’International Art Center (Iac), una società anonima registrata a Panama dallo studio legale Mossack e Fonseca. Nel 2017, dopo che i Panama Papers rivelarono che la Iac apparteneva da oltre vent’anni alla famiglia Nahmad, un giudice di New York ha stabilito che la causa dell’erede di Stettiner contro i Namhad era fondata. Più di recente, il 2 marzo 2018 il Dipartimento di Giustizia Usa ha accusato 10 soggetti, tra cui la società d’investimento londinese Beaufort Securities, di una truffa da oltre 45 milioni di euro e di tentativi di riciclaggio legati a tele del maestro di Malaga. Da marzo 2014 a febbraio 2018 la Beaufort Securities avrebbe truffato gli investitori gonfiando i valori dei titoli venduti e, tra ottobre 2017 e febbraio 2018, avrebbe contattato il proprietario della galleria d’arte Mayfair Fine Art di Londra per riciclare 7,6 milioni di euro attraverso l’acquisto sotto anonimato della tela “Personnages – 11 aprile 1965” di Picasso.
Il porto franco di Ginevra è stato spesso al centro di scandali. Nel 1995 si scoprì che era l’hub per una rete internazionale di reperti archeologici venduti al Getty Museum di Los Angeles. Nel 2003 le dogane svizzere vi hanno scoperto 200 antichità egizie rubate, tra cui due mummie. Nel 2016 la Polizia italiana rintracciò a Ginevra reperti romani ed etruschi rubati da tombaroli per conto di un mercante d’arte inglese. Intorno a Ginevra ruota poi la guerra tra il magnate e collezionista russo Dmitry Rybolovlev e il mercante d’arte Yves Bouvier, titolare di un magazzino nel porto franco ginevrino. Dal 2015 Rybolovlev ha portato in casa Bouvier per truffa ai clienti e dal 2018 Bouvier è sotto inchieste penali in Francia, a Monaco e in Svizzera. Come nella scena finale del capolavoro del 1981 di Steven Spielberg, dunque, chi oggi va in cerca dell’“Arca perduta” deve spesso infilarsi in uno smisurato, anonimo magazzino.