Libero, 27 maggio 2019
In Benin il vudù esige il sacrificio dei bambini
Sulle strade del Benin, al visitatore occidentale non possono passare inosservate le insegne dei negozi, dedicate alla Volontà o alla Grazia di Dio, anche se poi sono semplici sartorie oppure vendono più prosaicamente patate o strumenti elettronici. Ci si affida alla Provvidenza, ma non solo a quella, per sbarcare il lunario. Sotto la superficie del cristianesimo a cui ufficialmente aderisce la maggioranza della popolazione, accanto a una significativa minoranza islamica, si respira l’anima pervadente del vudù. È la magia nera, che trae le sue origni proprio nel territorio dell’ex regno del Dahomey (che significa Il Ventre del Serpente), dove prospera come una vera e propria istituzione religiosa, peraltro riconosciuta ufficialmente dallo Stato nel 1996 con tanto di festività nazionale che si celebra il 10 gennaio. In fondo, insieme al cotone, il vudù è l’unico genere che i beninesi finora sono riusciti, loro malgrado a esportare, portandosi dietro il loro bagaglio culturale da Ouidah, la cittadina costiera in cui quattro secoli fa si raccoglievano gli schiavi da imbarcare sulle navi negriere.
LE NAVI NEGRIERE
Venduti all’asta in Place Chacha, gli uomini dovevano compiere nove giri intorno a un albero, mentre alle donne ne bastavano sette, per dimenticare il loro passato e non soffrire quindi di nostalgia della terra dI provenienza una volta condotti a destinazione. Era una cerimonia d’addio, non dissimile da quelle che attualmente terrorizzano le prostitute, vittime della mafia nigeriana in Italia e legate da misteriose fatture e feticci maledetti ai loro padroni. Li accompagnavano in catene lungo un percorso, divenuto ora patrimonio culturale protetto dall’Unesco, accompagnato da statue di idoli pagani fino alla Porta del Non Ritorno, uno dei cinque punti dell’Africa Occidentale dai quali furono marchiati a fuoco e poi imbarcati a forza milioni di neri destinati alle Americhe, dove avrebbero fatto rivivere i loro sanguinosi rituali, con tanto di sacrifici animali e perfino umani e reincarnazioni di zombi, tramandati da secoli di padre in figlio.
IL TEMPIO DEI PITONI
Quotidianamente, al Tempio dei Pitoni di Ouidah, dove si adorano i serpenti, arrivano scolaresche in gita, anche se dal 2015 è vietato assoggettare i minorenni a pratiche divinatorie nell’intento di purificarli. Ma dal codice penale alla realtà sociale il passo non è breve. È ancora diffuso, anche se va riducendosi, il fenomeno dei cosiddetti «bambini stregoni», che rischiano di divenire il capro espiatorio dell’infanticidio rituale. Basta nascere podalici o con una malformazione, per rischiare di essere soppressi dallo stregone, convinto di salvare così la tribù dalla maledizione. Per sfuggire alla stregoneria che li assoggettava alla tratta, nel XVIII secolo, molti erano fuggiti sul lago Nokoué, fondando il villaggio lacustre di Ganvié, popolato attualmente da 35mila abitanti, che arrivano a 50mila con i centri vicini. Il mito locale narra di un re colonizzatore, giunto sulle ali di uno sparviero, che trasferisce i suoi sudditi sul dorso di un coccodrillo.
SULLE PALAFITTE
Ora come allora, vivono sulle palafitte, a 42 km dalla Nigeria, dove vanno a procurarsi la benzina e il gasolio da contrabbandare poi sulla terraferma. Cinque litri di carburante al mercato nero costano 320 franchi Fca, mentre al distributore la si paga anche 500. Tranne quel commercio illegale, vivono di pesca, a rete o da allevamento. Hanno scuole, chiese, moschee, templi vudùn e alberghi, ma, a guardia del porto che collega la «Venezia dell’Africa» alla città, rimane un altarino dedicato a una specie di demonio con tanto di corna e dotato di un fallo eretto che termina con una punta rosso fuoco. Ai turisti vengono offerte a 25 euro statuette con spilloni arrugginiti già conficcati. La vita pubblica è tanto mischiata alle credenze nei riti ancestrali che nemmeno la dittatura marxista-leninista del generale Mathieu Tchabitchade Kerekou, che governò fra il 1972 e il 1990, riuscì a sradicarle. Forse non ci riusciranno nemmeno i cinesi, che stanno investendo miliardi di dollari nelle infrastrutture del Paese nel loro sforzo di espansione in Africa.