Il Messaggero, 27 maggio 2019
Intervista al direttore d’orchestra Alan Gilbert
Alan Gilbert, per otto anni sul podio della New York Philarmonic, è attualmente direttore della Royal Stockholm Philharmonic, e da settembre assumerà il ruolo di Chief Conductor alla Elbphilharmonie di Amburgo. Dal 28 maggio dirigerà alla Scala l’opera di Erich Wolfgang Korngold, Die tote Stadt.
Maestro Gilbert, torna alla Scala con un’opera così fortemente segnata dalla nostalgia.
«Argomento centrale di Die Tote Stadt è quell’innaturale indulgenza a idealizzare il passato e il tentativo di conservarlo tale e quale secondo un’idea falsata e lontanissima dalla realtà dei fatti. È quello che stanno facendo i partiti di estrema destra un po’ dovunque, nel mondo: convincere la gente a tornare a un’epoca in cui si stava meglio perché non c’era la multiculturalità dei giorni nostri. Tutti temi molto contemporanei, perciò ritengo che sia più che attuale metterla in scena di questi tempi».
Esiste, o è esistita davvero, la città morta dell’opera di Korngold?
«La città cui fa riferimento il titolo è in realtà più una proiezione dell’immaginario dei protagonisti che una città vera e propria, al di là dell’origine letteraria del libretto (tratto dal romanzo dello scrittore simbolista Georges Rodenbach Bruges la morte, n.d.r.). Una città del genere potrebbe trovarsi dappertutto. Credo che la tote Stadt sia emblematica di quel mondo antico che il tempo ha ricoperto di una patina di perfezione idealizzata, e di cui è fin troppo facile ricordare soltanto i lati positivi».
Che tipo di nostalgia sprigiona la musica di quest’opera che sembra impregnata di uno struggimento inedito e quasi malato?
«C’è una nostalgia bella e sana, e una nostalgia che può far male: Paul, il protagonista dell’opera, è agitato dal tormento del ricordo della sua amante di un tempo, che crede di rivedere in un’altra donna ad essa molto somigliante. Sarà proprio la musica, il famoso Lied di Marietta che Paul canta alla fine dell’opera, a fornirgli gli strumenti per uscire dal proprio impasse psicologico e sfrondare via tutta la negatività del passato, trattenendone soltanto i ricordi buoni. I ruoli protagonisti sono estremamente impegnativi: sia vocalmente (cantano dall’inizio alla fine, e nel registro acuto) che emotivamente. Se non hai a disposizione due interpreti eccellenti e convinti, quel qualcosa di freudianamente irrisolto che c’è nei loro personaggi può suonare banale e scontato. La qualità della musica ha dell’incredibile: lo stile è decisamente eclettico. Korngold ha utilizzato tutto quello che gli è uscito dalla penna, senza risparmiarsi. Ci sono molti richiami ai compositori che più ammirava, come Puccini e Mahler, e che a volte cita letteralmente, come Wagner, ma è tutta farina del suo sacco: la partitura suona diversa da tutte le altre che conosco, e si avverte lo sforzo di cercare una voce e uno stile propri e riconoscibili».
Fino a qualche tempo fa qualcuno considerava Korngold un conservatore, e la sua musica irrimediabilmente datata.
«Macché conservatore! Non è una coincidenza che Korngold (ebreo, e costretto a rifugiarsi negli Usa, n.d.r.) sia poi diventato un grande compositore per Hollywood: la sua musica contiene slanci di romanticismo perfettamente congeniali al cinema. Può darsi che ai tempi delle avanguardie più ideologiche e spericolate venisse considerato un autore fuori moda, ma ora viviamo fortunatamente in un’epoca in cui Die tote Stadt viene rappresentata regolarmente in tutti i teatri del mondo».
Può darci qualche anticipazione sulle scelte di regia di Graham Vick?
«È la mia prima collaborazione con Graham Vick, e ne sono entusiasta. La sua concezione di Die tote Stadt ne mette in risalto ogni riferimento, più e meno evidente, ai fascismi emergenti in quegli anni del secolo scorso (la prima rappresentazione ebbe luogo ad Amburgo e a Colonia nel 1920, n.d.r.), proprio in relazione, credo, a quanto sta accadendo oggi nel mondo. Stiamo lavorando in piena sintonia».
In bocca al lupo per il suo nuovo incarico ad Amburgo, Maestro. E Stoccolma? È tutt’altro che una città morta, ma non le manca New York, che invece, secondo la famosa canzone, non dorme mai?
«Adoro Stoccolma. Ma è facile dire che ci vivo bene, perché in realtà il mio lavoro mi porta a viaggiare in continuazione. Per il momento, sono felice e onorato di essere qui a Milano, e di dirigere alla Scala»