Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  maggio 26 Domenica calendario

Razzismi romani

Come girare per Ponte Milvio con la sciarpetta della Roma. O per Testaccio con la sciarpetta della Lazio. Magari non succede niente, ma cogli un po’ di tensione mentre ti siedi al tavolino del bar o passeggi in piazza. Non succede niente, ma ti senti gli sguardi addosso. Se ne incroci qualcuno capisci che non sei il benvenuto. Però ti basterebbe togliere la sciarpetta, ficcarla in tasca, per tornare una presenza innocua, né amica né ostile, il tizio qualsiasi a cui la barista sta servendo il caffè continuando a chiacchierare con la collega.
Il fatto è che non tutti possono togliersi la sciarpetta. Non i bengalesi del negozietto di alimentari sotto casa mia, ad esempio, non gli ivoriani che lavorano all’autolavaggio, non i peruviani che saltano da un autobus all’altro ai capolinea di piazza Mancini con le loro sacche piene di spazzoloni e detersivi. Non le due bambine rom che stanno uscendo dal doposcuola. Tutta questa gente vive ogni minuto della giornata con la sciarpetta al collo. La sciarpetta sbagliata. Chissà quanto pagherebbero per potersela togliere. E poi c’è anche chi vorrebbe continuare a portarla, con naturalezza, talvolta con orgoglio, senza per questo rischiare di morire a calci e pugni. I gay, ad esempio, e le lesbiche.
Come dev’essere l’interminabile partita quotidiana, un giorno dopo l’altro dopo l’altro, se ti capita di finire nella curva non banalmente avversa bensì dove detestano, odiano la tua sciarpetta e non fanno grossi sforzi per nasconderlo? Io sono un maschio bianco di cinquant’anni suonati, apparentemente in forma, con un giubbetto rattoppato in più punti che posso indossare senza il rischio di essere scambiato per bisognoso. Ma se fossi nero?
Sto andando al Nuovo cinema Aquila per vedere il nuovo film di Roberto Minervini, Che fare quando il mondo è in fiamme?. Dal Villaggio Olimpico, dove abito, si tratta di un vero viaggio, così decido di muovermi con largo anticipo e allungare verso Centocelle per dare un’occhiata alla libreria Pecora elettrica, recentemente distrutta da un incendio appiccato da ignoti. Sui mezzi pubblici assisto come al solito a vari episodi istruttivi. Il tram 2 è gremito dalle signore del quartiere Flaminio che vanno a farsi una passeggiata in centro (è sabato pomeriggio), ma c’è ancora qualche posto a sedere. Mentre mi metto comodo, il ragazzo africano sul sedile accanto si stringe per evitare che la sua tuta di lavoro tocchi i miei jeans. È un gesto esagerato quasi quanto quello di un altro giovane subsahariano che la scorsa settimana mi ha chiesto scusa perché ha sfiorato la mia mano afferrandosi al sostegno. Può essere scambiata per cortesia solo se non si osserva lo sguardo basso, il collo rigido, la mandibola contratta. Non succede niente, siamo tutti brave persone qui a Roma, ma va’ tu a sapere che io non sia proprio il classico insofferente ex testa calda, pronto a innescare un tafferuglio per una simile sciocchezza. «Aoh, scansate co’ ’sta tuta demmerda».
Noto che ci sono sempre più immigrati che tengono la divisa addosso anche dopo aver staccato, o prima di cominciare il turno. Pulitori, fattorini, benzinai. Preferiscono lasciare i loro indumenti nello zaino o vengono vestiti così direttamente da casa sul posto di lavoro. Sono gli unici a farlo. In questo modo il ragazzo in tuta Agip sedutomi accanto lancia un messaggio chiaro a tutto il tram: come vedete, ho conquistato la fiducia di uno di voi che mi ha assunto nella sua pompa di benzina, ho le carte in regola, sono inquadrato, nella norma. La normalità, l’inquadramento, la divisa, tutte le cose che avrebbero stomacato il mio trito ribellismo giovanile lui le adora, sono il salvacondotto, la benedizione di un anonimato in cui mettere su famiglia, crescere figli di cui non capirà la lingua.
Eccoli qui i figli, salgono sulla metro C a San Giovanni. Sono cinque quattordicenni, un eccesso di peluria nera sul labbro superiore, la mente sempre per metà invischiata nel sesso, una stagione di cruciali sperimentazioni onanistiche, identica in ogni angolo del mondo. Si chiamano a gran voce da una parte all’altra del vagone – siamo in pochi diretti in periferia est a quest’ora del sabato —, vogliono sedersi tutti vicini per continuare i loro discorsi pieni di esclamazioni e cadute a precipizio, un alternarsi rapido di entusiasmo e sconforto per chissà quali scoperte fatte su Instagram mentre si strafogavano in un fastfood di via del Corso.
Sono figli di bengalesi di Centocelle o Tor Tre Teste ma esasperano la pronuncia dello slang locale – «mo’ t’o ’o sto a ddì!», «ma de ché!», «fìdete» – per far capire anche ai passeggeri più distratti che loro sono di Roma. Li tradiscono i nomi – Bijay, Rabindra, Debdan... – amici assenti che menzionano a voce più bassa. D’altronde, non siamo lontani da Casal Bruciato, dove pochi giorni fa una famiglia rom, regolare assegnataria di un appartamento del Comune, è stata respinta dalla gente del quartiere col sostegno dei militanti di CasaPound. «Ti stupro!», ha gridato uno di questi alla donna che entrava nella nuova casa con due piccoli in braccio, e temo non si trattasse di un maldestro segno di apprezzamento. Tra l’altro, i cinque adolescenti di rientro dallo struscio hanno lineamenti molto simili ai rom, i quali, si sa, possono vantare antiche origini indiane.
«Saranno stati loro, gli zingari?», scherzo col proprietario della Pecora elettrica, che mi sorride con l’aria di un sopravvissuto, mentre recupera le poche cose non carbonizzate della libreria il cui aspetto post apocalittico la riconduce beffardamente all’autore a cui è ispirata. Ma il proprietario non ha tanta voglia di parlare di Philip Dick né di scherzare, mi indica con la mano guantata da anatomopatologo un tavolo con alcune bottiglie di vino perché mi serva. Tra un po’, quando avranno finito di sgomberare, si aggiungeranno anche lui e i suoi amici. Nel parco di fronte, dove prima si spacciava, organizzavano presentazioni, incontri letterari. Portavano microfoni, accendevano luci, attiravano la gente. Ma non sarà certo per questo che la loro libreria è stata ridotta in cenere...
A proposito di librerie, passando per l’area dei localini indie-chic di via del Pigneto, un’esperienza quanto mai esotica per un abitante di Roma nord, mi imbatto nella libreria Tuba di cui avevo già sentito parlare e decido di entrare. Dopo la solita botta di tristezza che mi arriva ogni volta che scopro la totale assenza di miei libri sugli scaffali, mi accorgo che mancano anche quelli di Kafka e di Philip Roth e di Don DeLillo e di J. M. Coetzee e di Primo Levi e insomma di tutti gli scrittori di sesso maschile. L’effetto inizialmente consolatorio della scoperta si trasforma presto in sgomento: come si può rinunciare a leggere capolavori della letteratura solo perché sono stati scritti da uomini? Perdipiù il collettivo di lesbiche che gestisce la libreria proclama anche sul sito «la sua lotta contro le discriminazioni basate sul genere». Vorrei chiederlo alla ragazza che sta preparando le tartine per gli spritz, ma ora ho io la sciarpetta sbagliata, se ha senso dir così. Da quando sono entrato ho gli occhi puntati addosso, sono l’unico uomo qui dentro, nessuno ovviamente mi dirà di andarmene, però gli sguardi non lasciano dubbi.
Dell’assenza di scrittori ne parlo con un’amica che incontro per caso seduta fuori, ai tavolini degli aperitivi (dell’ostilità avvertita preferisco tacere). Mi spiega che l’identità, l’appartenenza, ora sono più urgenti, non è ancora il momento di essere equanimi, obiettive. «Girando per la città io so dove posso tenere per mano la mia compagna e dove è meglio ignorarsi. Ho proprio la mappa in testa, sai. Il Pigneto è una delle poche isole, già sul ponticello della ferrovia possiamo beccarci qualche insulto. Quando va bene. Molte di noi sono state menate, e non ti sto parlando di effusioni, baci, ti sto parlando di tenersi per mano con la persona che ami». Dà un tiro alla sigaretta, mi scruta tra il fumo per indovinare una mia reazione, poi continua: «Il gay pride è una manifestazione superata? A Stoccolma forse, a Copenaghen, non certo a Roma. Perché devo abbassare lo sguardo quando cammino con la mia compagna? Troviamo tutti nauseante il politicamente corretto, ma saresti della stessa idea se ti chiamassero froscio demmerda?».
Con questi interrogativi lasciati in dote dalla mia amica mi dirigo verso il Nuovo cinema Aquila. Penso alle donne che incrocio ai Parioli o in Prati, sui marciapiedi affollati di Cola di Rienzo, la breve scossa di quello sguardo sostenuto. La valutazione istantanea, tu esisti, io esisto. Sono attimi brevissimi che possono salvare una giornata. È così bello guardarsi, riconoscerci nel vasto campo del possibile, giusto il tempo di un paio di passi, e poi sparire l’uno alla vista dell’altro, tutt’al più un ultimo colpo d’occhio sopra la spalla. Ma basta che cali la notte perché le stesse donne si astengano da ogni contatto visivo, passanti improvvisamente prive di scioltezza, contratte, quasi dotate di paraocchi, monadi terrorizzate. «Aho, manco me rispondi! A stronza! A troia!». Può succedere anche su una strada illuminata, figurarsi in autobus o nella metro. Che vuol dire essere neri, o rom, o gay, o lesbiche qui a Roma? O anche, solo, che vuol dire essere donne dopo le dieci di sera? Che fare quando il mondo è in fiamme?
Una coppia di conoscenti che ha adottato un bambino congolese, ora diciottenne, mi ha raccontato che loro figlio, quando va a zonzo con la sua minicar, viene sempre fermato dalle pattuglie della polizia. Gli amici si sono lamentati più volte perché devono aspettarlo, loro passano incolumi ai blocchi, lui viene puntualmente fermato. Poi, una volta sceso, gli agenti vedono che indossa il giubbino alla moda, sentono il birignao da liceale, a quel punto però, per non fare una figuraccia, si perdono comunque in mille controlli via radio. Patente, libretto, carta d’identità. Scusi agente, a che le serve la mia carta d’identità? Ma ovviamente il ragazzo non chiede niente, mastica amaro mentre gli altri della compagnia lo bombardano di messaggi. Che fare quando il mondo è in fiamme?
Il film di Roberto Minervini non è ambientato a Roma, bensì nel quartiere nero di New Orleans. Tuttavia conta poco il posto, anche il conflitto razziale che continua a bruciare gli Stati del sud dopo Obama, anche quello conta poco rispetto alla furia conoscitiva del regista, al suo modo di scavare nelle persone, di portare in luce il nucleo pulsante delle loro vite, di mettersi in ascolto della loro pelle, dei loro occhi, prima ancora delle parole. Il lavoro di Minervini ha molto più a che fare con l’arte performativa che con la fiction, o peggio, la docufiction. È la scelta di un artista che vive per anni nella comunità che ha catturato il suo interesse (ogni film una diversa) e lo fa fino a diventare l’uomo invisibile. Ma per trasformarsi in puro occhio bisogna prima esporre il proprio corpo, metterlo totalmente in gioco in modo che gli altri possano fidarsi. È solo perché Minervini beve con Judi e fuma con Michael e fa giocare i suoi figli con Ronaldo e Titus, che poi può tenere per giorni la telecamera a un palmo dai loro volti e al tempo stesso sparire. Un bianco italoamericano in mezzo ai neri del ghetto, in mezzo ai quattro gatti delle New Black Panthers, un uomo con la sciarpetta sempre sbagliata, una specie di Socrate muto la cui potenza maieutica risiede tutta nello sguardo, nell’essere lì in mezzo agli altri con il suo corpo-occhio.
Gettarcisi dentro, ardere, ecco che fare quando il mondo è in fiamme.