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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Briganti e Borbone, la falsa alleanza

Scena prima. Il 7 settembre 1861 a Napoli si celebrò il primo anniversario dell’ingresso di Garibaldi alla testa dei Mille. La manifestazione fu un trionfo. Antonio Ranieri, antico compagno di Giacomo Leopardi, scrisse al generale che se avesse potuto «contemplare questo popolo» sarebbe rimasto stupito per l’entusiasmo.
Scena seconda. Antonio Winspeare, diplomatico dei Borbone, era sconfortato. Lavorava, s’impegnava, cercava con tutto sé stesso di cambiare il disprezzo verso la dinastia di Francesco II. Nella primavera del 1861 scrisse al re, che aveva ricreato corte e governo a Roma, che nonostante i suoi sforzi e i soldi la «gran massa del pubblico continua sempre ad essere favorevole alla causa dell’unità italiana e al Governo piemontese. Di ciò fa fede il linguaggio dei giornali, che senza distinzione di parte sono tutti a noi ostili».
A volte le immagini dicono più delle parole. Ma mentre a Napoli si festeggiava e a Roma si sperava ancora nelle cancellerie di mezza Europa, al di là dei monti, nelle «province napoletane», nei boschi del Sannio, della Lucania, del Molise, della Calabria andava in scena la guerra per il Mezzogiorno. La Seconda guerra d’indipendenza italiana era stata una guerra lampo. Poi era venuta la spedizione dei Mille. Nel giro di poco tempo era avvenuto il miracolo: l’Italia unita e libera. La famosa «espressione geografica» del Metternich era diventata il nuovo Stato nazionale europeo. In Europa pochi credevano che durasse. Durò. Tuttavia, proclamato il Regno d’Italia e morto Cavour, iniziarono nel Mezzogiorno la guerriglia rurale e la battaglia della propaganda che passeranno alla storia come «guerra di brigantaggio». Durò dieci anni. Fino al 1870, quando i bersaglieri entrarono a Roma. Questi dieci anni in cui lo Stato italiano ingaggiò una dura guerra irregolare con il brigantaggio meridionale sono il tema del libro di Carmine Pinto La guerra per il Mezzogiorno (Laterza). Fu un conflitto decisivo per il destino del nuovo Stato italiano: se fosse caduto il Sud, se fossero ritornati i Borbone a Napoli, come era accaduto nel 1799, come era successo dopo la fine di Murat, come si era verificato nel 1848, sarebbe venuto giù molto probabilmente anche il capolavoro del conte di Cavour.
Varie sono state le interpretazioni del fenomeno brigantesco. Nelle ricostruzioni post-unitarie il brigantaggio è stato visto come un «effetto collaterale» della stessa unificazione nazionale. Nel secondo dopoguerra, con la Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese (Feltrinelli, 1964), è stato letto o in chiave di conflitto sociale o di repressione criminale. In tempi più recenti, anche grazie al perdurante divario tra Nord e Sud, è nato il mito duosiciliano di un regno borbonico felice e progredito, stroncato dall’invasione «piemontese».
Ora il libro di Carmine Pinto cambia la prospettiva e, sulla base di una ricca documentazione, ci offre in gran parte una «storia militare» di quel decennio drammatico in cui il governo italiano doveva vincere per dare «legittimità definitiva al nuovo edificio nazionale» e i legittimisti o i briganti dovevano resistere perché «era l’unica possibilità di sopravvivere come soggetto politico o attore sociale». Propriamente è questa «la guerra per il Mezzogiorno». Sappiamo come è andata: vinse il movimento nazionale; lo Stato napoletano fu sostituito dalla nazione italiana; il brigantaggio, fenomeno plurisecolare, finì definitivamente.

La guerra per il Mezzogiorno è parte integrante del Risorgimento. Senza risalire fino al 1799, essa nasce quando nel 1848 fallisce il progetto neoguelfo e a Napoli si sancisce definitivamente la spaccatura tra assolutismo e costituzionalismo: Ferdinando II non volle la monarchia costituzionale. Anche un esponente importante del partito liberale moderato napoletano, Carlo Poerio, ne dovette prendere atto. È a questo punto che la guerra nazionale si unì al conflitto civile meridionale e il Piemonte dei Savoia e di Cavour diventò il punto di riferimento di tutti i liberali. Questa spaccatura si ripropose anche dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, con i Borbone che si rifugiarono prima a Gaeta e poi a Roma e credettero prima in un intervento europeo e austriaco, poi nel tentativo già disperato di provocare una sorta di nuova controrivoluzione, di Vandea napoletana, di una nuova rivolta della Santa Fede come quella del 1799. Ma questa volta la storia non si ripeté e lo scontro che si consumò nel Mezzogiorno fu il risultato di un conflitto antico aperto con l’età dei Lumi e della Rivoluzione francese.
La resistenza borbonica aveva due fronti: il «governo in esilio» di Francesco II a Roma e le bande dei briganti nel Mezzogiorno. Entrambi i fronti erano deboli. Francesco II, che si trovò sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato, perse quasi subito la speranza di avere un aiuto dalle potenze europee. Ben presto anche Prussia e Russia riconobbero lo Stato italiano e gli unici alleati dei Borbone rimasero Vienna e Madrid.
Così l’unica possibilità rimasta ai Borbone era il tentativo di destabilizzare lo Stato italiano con il brigantaggio politico che si finanziava e organizzava. Inutilmente. Perché il rapporto tra i briganti e i Borbone fu solo un reciproco sfruttamento e la guerra dei boschi, che pure poteva confidare su una vasta area di fiancheggiatori (detti «manutengoli»), non uscì mai dalla fase guerrigliera per avere una vera strategia politico-militare. Nessun notabile si mise a capo di una causa persa. Non spuntò nessun novello cardinale Ruffo. Non è un caso che il brigante Chiavone fu ucciso proprio dai borbonici perché troppo autonomo. I legittimisti Tristany e Zimmermann gli tesero una trappola: gli proposero un incontro, ma al suo arrivo fu catturato con i suoi tre uomini, furono tutti eliminati e i loro corpi bruciati per nascondere l’uccisione, da parte dei suoi stessi alleati, del capobanda più famoso sulla stampa italiana ed europea.