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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Il tennis e la letteratura

Chi lo pratica o lo ha praticato, sa che il tennis si svolge anzitutto in un luogo: nella testa dei giocatori. Si tratta inoltre dello sport più solitario che ci sia, dato che i tennisti non possono parlare neanche col proprio allenatore. È forse per via di quest’esasperato solipsismo, di questo deficit relazionale, che il rapporto tra tennis e cinema non è mai stato facile. Quasi ogni sport ha il suo film: a volte sono capolavori, come Toro scatenato per la boxe; altre, film «soltanto grandi» come Ogni maledetta domenica per il football o L’uomo dei sogni per il baseball, o almeno iconici come Fuga per la vittoria per il calcio o Karate Kid per il karate; persino uno sport combinato come il wrestling ha il suo filmone, con The Wrestler. Il tennis, niente.
Wimbledon di Richard Loncraine fu solo una brutta esperienza, tanto per gli spettatori quanto per Kirsten Dunst e Paul Bettany; Match point di Woody Allen rimediò una nomination agli Oscar ma dopo neanche tre lustri è già dimenticato. Meglio il doppio misto di Io e Annie, volendo restare su Allen, o ancora L’altro uomo di Hitchcock, i mimi di Blow-up di Antonioni, il «Batti lei?» di Fantozzi o ancora il crollo nervoso di Richie nei Tenenbaum, e viene allora da pensare che, troppo solitario per un intero film, il tennis sia più adatto a incarnarsi in singole scene.
Va meglio coi libri. Anche nel massimo tempio tennistico non mancano del resto i rimandi letterari: l’ingresso del Campo Centrale di Wimbledon reca una frase di Rudyard Kipling, «Possa tu trattare trionfo e disfatta, quei due impostori, allo stesso modo», e nei pressi del Campo 1 ha sede la più completa biblioteca a tema del mondo, con 15 mila volumi da novanta Paesi. Il grosso di tale corpus sono manuali e biografie ma, a ben cercare, la letteratura c’è.

Il primo è Musil, che in Quando papà imparava il tennis, del 1931, lamentava la trasformazione del più aristocratico degli sport in attività di massa. Troviamo poi del tennis nel Giardino dei Finzi-Contini del nostro Giorgio Bassani (che fu anche campione regionale per il Circolo Marfisa d’Este di Ferrara), dove il protagonista, espulso dal suo circolo per via delle leggi razziali, proprio come Bassani dal Marfisa d’Este, trova rifugio, e possibilità di giocare, nel giardino del titolo, dotato di campo. Sei anni dopo — Il giardino dei Finzi-Contini è del ’62 – arriva Twynam of Wimbledon, deliziosa non-fiction narrativa del Pulitzer John McPhee dedicata all’uomo che fu giardiniere capo di Wimbledon per quarant’anni, e l’anno successivo l’ancor più sublime Levels of the game, in cui McPhee racconta la tesissima semifinale di Forest Hill del ’68 tra il nero Arthur Ashe e il bianco Clark Graebner – e se queste storie vi sembrano familiari, forse è perché le avete lette: Adelphi, che recentemente ci ha dato anche l’eccellente galleria di pionieri Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola, le ha infatti raccolte nel volumetto unico Tennis, del 2013, anno in cui arriva in Italia, per 66thand2nd, anche Terribile splendore di Marshall Jon Fisher, sull’ancor più simbolica semifinale di Coppa Davis del ’37 tra Germania e Stati Uniti, che vide Don Budge, primo vincitore di un Grande Slam, contrapposto al barone Gottfried von Cramm. Prima di arrivare a Fisher (o magari al messicano Álvaro Enrigue, che in Morte improvvisa, del 2015, racconta un’immaginaria partita di tennis tra Caravaggio e il poeta Francisco de Quevedo), c’è però una tappa cruciale. E non parliamo di Il tennis, Strindberg e l’elefante di Lars Gustafsson, godibile romanzo del ’77 in cui un intellettuale svedese finito in un campus Usa scopre la dimensione fisica della vita attraverso il tennis, né del mediocre Match ball di Antonio Skármeta, dell’89…

Il lettore avveduto avrà già capito dove intendiamo arrivare: il tennis è infatti uno dei pochi sport ad aver avuto uno dei maggiori scrittori di sempre tra i suoi cantori. David Foster Wallace, certo. E non tanto per i saggi contenuti in Tennis, trigonometria e tornado o Il tennis come esperienza religiosa: il vero monumento letterario wallaciano a quello che lui stesso considerava il più bel gioco al mondo è Infinite Jest.
Non sono i suoi Roger Federer e Pete Sampras, pur mirabilmente descritti, a testimoniare l’amore per il gioco di Wallace e la sua capacità ineguagliabile di raccontarlo, ma Ortho Stice, Michael Pemulis, John Wayne e Hal Incandenza, gli studenti della Enfield Tennis Academy, poiché, per quanto vari siano i temi che tocca, Infinite Jest è anche il miglior romanzo sul tennis scritto finora. Solo chi ha giocato a livello agonistico può parlare di tennis, diceva il (brevemente) n°1 Atp Mats Wilander, e se è vero che tanto Wallace quanto Fisher e Bassani lo hanno fatto (l’autore del presente articolo rivendica, a titolo di legittimità almeno per esso, l’appartenenza al perdentissimo, ma pur sempre agonistico, team under-16 del Circolo Tennis Montevarchi), questo ci porta al libro a cui hanno pensato tutti al solo approcciare questa pagina: Open di Andre Agassi (con J.R. Moehringer), rispetto al quale è forse l’ora di ammettere che è veramente strepitoso solo il primo capitolo, ma a cui va riconosciuto il merito di aver rilanciato, da solo, un intero filone, e aver fatto del tennis lo sport che annovera sia il miglior romanzo che il miglior memoir: non male per qualcosa di così solipsista. Ma non lo è, in fondo, anche la letteratura?