La Lettura, 26 maggio 2019
I braccianti digitali al servizio dei robot
Il bracciante del terzo millennio è un lavoratore che, come i raccoglitori di pomodori in agricoltura, svolge le mansioni più umili e ripetitive nella nuova economia digitale. È figlio della rivoluzione dell’intelligenza artificiale ma, come ai vecchi tempi della manodopera occasionale gestita con il caporalato, riceve una retribuzione molto bassa, non ha tutele sociali ed è privo di capacità negoziale.
Sappiamo da tempo che la cosiddetta gig economy, l’insieme dei servizi on demand (come un’auto di Uber o i pasti consegnati a domicilio da Foodora o Deliveroo) utilizzati da molti di noi per la loro convenienza, produce sì nuovo lavoro, ma alimenta anche una sorta di sottoproletariato: fattorini o autisti travestiti da «imprenditori di sé stessi» privi delle protezioni che le aziende riconoscono ai loro dipendenti. Un problema particolarmente acuto negli Usa dove questi lavoratori, oltre a non avere benefici pensionistici e altri diritti come le ferie o i permessi retribuiti per la maternità, non ricevono nemmeno una copertura sanitaria.
Ora il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale sta facendo nascere una nuova underclass: lavoratori che, a differenza di quelli della gig economy con i quali entriamo comunque in contatto (autisti, fattorini, operatori di call center), sono dei veri fantasmi. In America li chiamano sharecropper, coltivatori: rende l’idea del lavoro umile, ripetitivo e precario, ma qui stiamo parlando di braccianti tecnologici. O, meglio, di etichettatori digitali.
Quando qualche esperto avverte che, con l’avanzata dell’automazione, dobbiamo prepararci a gestire e a mantenere in equilibrio un mondo nel quale ci sarà meno bisogno di lavoro umano, i tecno-ottimisti obiettano che la tecnologia fa effettivamente sparire interi tipi d’impiego, ma ne crea anche altri perché le macchine non sono mai totalmente autonome. Qui i problemi sono due: quello della quantità di lavoro sostitutivo delle mille mansioni destinate a scomparire e quello della sua qualità. Per capirci: la macchina – ormai capace di sostituire l’uomo anche in funzioni intellettuali intermedie, come il lavoro di contabilità o l’interpretazioni di test clinici per diagnosticare patologie – non è (ancora) in grado di muoversi nello spazio, salire una rampa di scale, individuare l’appartamento giusto in un corridoio male illuminato. Nei servizi di consegna a domicilio, quindi, è vero che uomo e macchina dono destinati a lavorare in simbiosi, ma la parte lasciata dalla tecnologia all’homo sapiens non è entusiasmante.
Qualcosa del genere accade con l’intelligenza artificiale: ci stiamo abituando all’idea di macchine intelligenti che riconoscono i volti, le situazioni, che guidano un veicolo sulle strade senza bisogno di interventi umani. Tutto vero: attraverso telecamere, raggi laser e sensori di ogni tipo l’intelligenza artificiale vede e interpreta. E accresce da sola la sua conoscenza con i meccanismi del machine learning. Ma tutto questo non avviene grazie a un incantesimo. L’intelligenza artificiale va istruita: bisogna aiutarla a riconoscere la realtà, a distinguere un gatto da un cane, un’auto da un pedone e un albero da un lampione. Per fare questo, la macchina va alimentata con milioni di immagini etichettate, indicando ogni volta cosa vi è rappresentato.
Questo lavoro di etichettatura di milioni di foto viene affidato a un esercito di cropper: lavoratori pagati molto poco, reclutati online in giro per il mondo o anche negli Stati Uniti. Sono loro i fantasmi. «E non sono gli unici», spiega l’antropologa Mary Gray, ricercatrice di Microsoft che ha appena pubblicato, insieme al computer scientist Siddharth Suri, Ghost Work, un viaggio nel mondo dei lavori-fantasma. E aggiunge: «Fanno parte di questa categoria anche molti altri addetti invisibili, come le decine di migliaia di operatori che individuano contenuti inappropriati sulle reti sociali e li rimuovono, i cosiddetti content moderator. Ma anche il personale che si occupa della sottotitolazione di molti video o della rifinitura delle traduzioni automatizzate. L’elenco può essere infinito: comprende tutti i casi in cui un mestiere complesso, in genere affidato a un dipendente a tempo pieno, può essere smantellato e spezzettato in una serie di funzioni più elementari». Alcune demandate alle macchine, altre agli uomini.
Il caso del quale di recente si è parlato di più è quello di Facebook che, dopo essersi illusa di poter affidare l’eliminazione dei contenuti illegali o comunque gravemente nocivi ai robot (abbastanza efficaci quando si tratta di bloccare la pornografia, ma facili da ingannare in molti altri casi), ha dovuto fare ricorso all’occhio umano per intercettare messaggi razzisti, incitazioni all’odio etnico, tentativi di reclutare terroristi.
Come nel caso di certi «lavoretti» della gig economy, utili per alcuni prestatori d’opera che in questo modo integrano la retribuzione fissa ma insufficiente di un impiego formale rinunciando a parte del loro tempo libero, anche le mansioni affidate ai cropper, assai vantaggiose per il datore di lavoro a causa della loro flessibilità e del basso costo, possono in certi casi avere anche una loro utilità sociale. È il caso di Alegion, una società del Texas che dà lavoro a veterani di guerra disabili. Per il suo capo, Nathaniel Gates, spezzettare le funzioni, rendere più elementare il lavoro di etichettatura delle immagini (foto aeree nelle quali l’uomo deve insegnare all’intelligenza artificiale a distinguere le auto dai minivan, i pick up, gli autobus e gli altri tipi di veicolo) è la cosa giusta da fare.
Le società di etichettatura sostengono di pagare i loro collaboratori da 7 a 15 dollari l’ora, ma in realtà le retribuzioni medie sono molto inferiori, anche perché gran parte di queste mansioni elementari sono affidare a lavoratori a basso costo africani e asiatici. Attualmente i maggiori bacini per il labeling sono in Kenya e in Malaysia dove le retribuzioni in genere vanno dai 3 ai 5 dollari l’ora. «Per il grosso del lavoro dipendente», commenta Darrell West, direttore del Centro per l’innovazione tecnologica della Brookings Institution di Washington e autore di un saggio, The Future of Work, pubblicato di recente, «tutto questo è come un micidiale uno-due assestato a un pugile sul ring: da un lato la tecnologia automatizza il lavoro riducendo le funzioni umane, dall’altro il cambiamento dei business model di vari mestieri con lo spezzettamento delle funzioni e la creazione di una gig economy flessibile, ma assai meno sicura».
La flessibilità, ovviamente, ha i suoi vantaggi e c’è chi invita a non regolamentare, a non fissare limiti, se non si vogliono compromettere le possibilità di creare lavoro sviluppando nuovi business. Ma gli studiosi avvertono che il sistema che sta prendendo piede è destinato a rendere ancora più stridenti disparità estreme nella distribuzione del reddito che già hanno scatenato grosse crisi politiche e sociali in tutto l’Occidente. Non fosse altro perché, come spiega Grey, le aziende pagano gli etichettatori una sola volta mentre usufruiscono dei benefici di quel lavoro in una serie infinita di applicazioni che verranno messe sul mercato, anno dopo anno. Gli economisti, aggiunge Siddharth Suri, hanno creato un termine, monopsony, per descrivere questa situazione di quasi-monopolio nella quale un singolo offerente riesce a dominare il mercato del lavoro.
Sparite le grandi fabbriche e le grandi organizzazioni sindacali, dobbiamo convincerci che quello delle diseguaglianze crescenti e dei lavori incerti, impalpabili, sarà un destino inevitabile, nell’era dell’economia e della realtà virtuale? Niente affatto, replicano gli autori di Ghost Work: i recenti scioperi degli autisti di Uber e del suo concorrente diretto, Lyft, come anche le lettere inviate a Jeff Bezos da migliaia di dipendenti di Amazon che rivendicano i loro diritti, indicano che, anche senza la vicinanza fisica nella fabbrica, i lavoratori possono imparare a organizzarsi facendo rete via internet.
Ora sta al potere politico e alle aziende decidere se continuare sulla strada del capitalismo selvaggio alimentato da una rivoluzione tecnologia che, se non governata, può spingere verso reazioni sociali sempre più estreme, o se guardare lontano cercando nuovi equilibri. Imprese come Microsoft e Google, che hanno cominciato a riconoscere alcuni diritti – sanità e permessi pagati – anche a molti loro lavoratori esterni, i cosiddetti contractor, sembrano voler imboccare la seconda strada.