La Lettura, 26 maggio 2019
Servono insegnanti veri, non facilitatori
Il contemporaneo grido di dolore di storici e filosofi dovrebbe, e vorrebbe, far pensare e far riflettere la pubblica opinione e i responsabili della formazione dei nostri giovani. Siamo alla fine di un lungo viaggio che Erich Auerbach, il grande filologo romanzo, aveva già intuito e descritto in un saggio del 1952, dopo cinque anni di insegnamento nelle università degli Stati Uniti. Il senso storico-prospettico della vicenda umana è ancora con noi, diceva, ma è dubbio se vi apparterranno ancora molte generazioni. «Già adesso, continuava, lo stato di impoverimento che ci minaccia è intrecciato con una formazione che esclude la storia: questa formazione non solo esiste, ma ha già la pretesa di prevalere (…) Lo studio della realtà del mondo praticato con metodi scientifici riempie e domina la nostra vita; se vogliamo, esso è il nostro mito, perché non ne possediamo un altro che abbia validità generale».
Naturalmente il punto non è prendersela con la scienza, che fa in generale benissimo quello che fa; il punto è la formazione globale, in grado di affiancare i problemi della conoscenza con le grandi questioni del senso della vita e della appartenenza alla società politica. Il privilegio della sempre crescente specializzazione dei saperi e l’invasione inarrestabile della logica della comunicazione spogliano di fatto ogni cittadino della semplice competenza in umanità e in esercizio di vita democratica.
Non ripeterò qui quello che, con grande dottrina, hanno scritto recentemente alcuni colleghi filosofi, come Enrico Berti e Donatella Di Cesare, sulla importanza della formazione filosofica nella scuola di ogni ordine e grado; sul diritto dei giovani di acquisire capacità di libera discussione razionale; sulla necessità di porre domande sui presupposti delle stesse scienze della natura; sulla radicalità feconda di una formazione che si sottrae alle finalità della pura economia del profitto e che, nel ricordo della vita esemplare dei filosofi antichi, ci rende «sublimi migranti del pensiero», come scrive Donatella Di Cesare. Il «Manifesto per la filosofia» scritto da Marco Ferrari e Gian Paolo Terravecchia elenca efficacemente questi temi generali e, come avrebbe detto Charles Sanders Peirce, capiterà che essi vengano trascurati proprio da coloro che avrebbero più bisogno di comprenderli.
Vorrei invece ragionare sulla complessità del problema generale «scuola», tenendo ben presenti anche le considerazioni di coloro che nella scuola quotidianamente vivono e lavorano, docenti, ispettori e dirigenti. La scuola, si dice per esempio, è un presidio sul territorio che si fa carico degli immensi problemi dei giovani e delle loro famiglie in questa società complicata e travagliata. La scuola svolge in proposito un’azione sicuramente preziosa e indispensabile. Il suo sforzo è quello di rendere desiderabile lo spazio scolastico, di arricchirlo di nutrienti esperienze anche extra-scolastiche, di darsi da fare nel territorio per la relazione scuola-lavoro e così via. Anche questo, certo, è formazione; ma con uno sguardo che assume la situazione economico-sociale e cerca di migliorarla soggettivamente per quanto è possibile. Il rischio è però quello di non arrivare a sfiorarla nei tratti della sua oggettiva e crescente incultura. Per dire in fretta, è per esempio l’imporsi della logica del «facilitatore»: bestemmia pedagogica che offende lo spirito degli alunni e che priva i cittadini del diritto all’accesso all’alta cultura. È la logica del professore giovanilista e amicone che chiama in classe il cantautore, come se i ragazzi non fossero già sin troppo abili a procurarseli da sé, per la gioia degli interessi milionari delle case discografiche.
Naturalmente le cose sono terribilmente complesse. Anche il cantautore può occasionalmente svolgere una preziosa funzione culturale: dipende dal modo. E poi c’è classe e classe, c’è professore e professore. Però non possiamo e non dobbiamo dimenticare che una porzione crescente e impressionante di studenti non sono più in grado di leggere e di comprendere testi di media difficoltà; non sanno scrivere correttamente e non sanno parlare decentemente, nei licei e ormai anche nelle università: negare questi fatti è impossibile. Ignorare che essi costituiscano anche un dramma per la vita democratica, ormai preda delle espressioni più volgari, ingannevoli e vuote di pensiero, è, politicamente, un delitto. Come porvi rimedio è la domanda di molti; di nessuno, credo, è la pretesa di possedere la soluzione.
Quello che vorrei anzitutto suggerire è che bisogna distinguere tra la scuola, la nostra scuola dell’obbligo e la scuola superiore, e l’università. I problemi sono differenti ed esigono specifiche riflessioni. Per esempio vorrei ricordare che la storia non coincide con l’informazione storiografica, così come la filosofia non coincide con il manuale di storia della filosofia. Questi strumenti mi pare che siano ormai obsoleti o insufficienti; funzionavano quando l’impostazione fondamentalmente umanistica degli studi secondari era un fatto pacifico, socialmente motivato e condiviso. Oggi non è più così. La riforma dei programmi è stata troppo timida, da un lato, e contemporaneamente vacua e sconsiderata dall’altro: di fatto ogni volta pregiudizievole, preda di ossessioni pedagogico-valutative e frutto di misteriose sette decisionali che abitano il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Bisogna cambiare radicalmente direzione, avendo in animo una finalità: avvicinare i giovani alla grande cultura, non a pretese «competenze», ma a quelle conoscenze che tutti i cittadini hanno diritto di essere aiutati ad acquisire. Questo però esige anzitutto una classe di docenti in grado di svolgere tale grande compito.
Compito che dovrebbe essere uno scopo delle università, del quale peraltro esse sono oggi del tutto incapaci (ricordo i fallimenti dei vari tentativi di creare vie formative per la didattica, regolarmente banalizzate e devastate dalle pretese «scientifiche» del «pedagogichese» imperante). Nelle attuali facoltà umanistiche il modello dell’internazionalismo universitario altamente specialistico e anglofono regna sovrano, accompagnato in Italia dallo scandalo dei criteri di selezione dei ricercatori, costretti a uniformarsi alle pretese scientifiche delle cosiddette riviste di fascia A: una situazione che, in barba alla Costituzione che sancisce la libertà di ricerca, impone invece modi di vedere privati, ma fatti propri dal ministero. Di qui l’uniformarsi inevitabile dei giovani a criteri che sono imposti senza alcuna legittimità da gruppi di colleghi, ben lieti di godere di un simile privilegio, ma certo non pensosi dell’impoverimento e della banalizzazione della produzione scientifica che fatalmente ne deriva.
Mi sembra evidente che, se vogliamo cambiare le cose, la modificazione debba partire dalle università, dal loro modo di produrre cultura e formazione, dal loro coraggio e dalla loro libertà nel promuovere la ricerca e la selezione dei giovani ricercatori, dalla loro onestà morale e politica. Anche dalla consapevole forza con la quale decisamente rifiutarsi a imposizioni ministeriali giudicate improvvide: ricordo che alcuni di noi tentarono di opporsi alla famosa riforma del tre più due (cioè alla doppia laurea, triennale e magistrale) prevedendone l’insensatezza totale per gli studi umanistici: credo che siamo in moltissimi a rimpiangere di averla subita. Oggi, dicono i rettori, è impossibile tornare indietro. Ovvero, si può farlo solo con una visione completamente rinnovata e grazie a una base politica davvero per il momento impensabile.
Resta poi il grande problema: come trasmettere l’immenso patrimonio di conoscenze e di storie nelle varie facoltà universitarie e, ancor più, nelle scuole secondarie? Come evitare la mera informazione superficiale, astratta, menzognera e ovviamente non amata dai giovani? Per offrire qui un piccolissimo spunto di riflessione, ricorderò ancora la lezione di Auerbach, che già si misurava con questi problemi. Più l’unità del mondo cresce, ovvero la complessità delle conoscenze e i rapporti tra le culture del pianeta, più l’attività sintetica e prospettica, diceva, dovrà ampliarsi; ma ampliarsi come? Con immense banche dati, bibliografie ingestibili e riassunti banalizzanti in Rete?
Auerbach proponeva l’immagine del «filologo sintetico», capace di trovare un punto interno, una figura molto particolare, un elemento caratteristico in base al quale ricostruire, appunto dall’interno, tutto un mondo storico di senso. Un punto dotato di intrinseca luminosità che si irradi sul tema generale, evitando astrazioni, classificazioni di comodo, categorie velleitariamente intellettualistiche. Per esempio, come egli stesso fece, ricostruire il senso della nuova letteratura cristiana, in polemica con l’antica, partendo dall’analisi della semplice parola humilis. Per la filosofia parlerei di «dettaglio luminoso». Ricostruire come in un film il giorno in cui uno sconosciuto Socrate, incontrando il famoso sofista Gorgia, semplicemente gli chiese: «Gorgia, dicci chi sei».