La Lettura, 26 maggio 2019
L’Homo sapiens è nato due volte
Come siamo diventati umani? Che cos’è «questa quintessenza di polvere», per dirla con l’Amleto di Shakespeare, che ci differenzia dagli altri animali? La risposta che diede Darwin è nota: la nostra diversità è una questione di grado, non di qualità. Abbiamo un intelletto «quasi divino», ma portiamo dentro lo stampo indelebile delle nostre umili origini animali. Il genetista e divulgatore inglese Adam Rutherford, nel libro Umani (Bollati Boringhieri), sostiene che Darwin poteva aver ragione a metà dell’Ottocento, ma oggi, di fronte alla cavalcata culturale e tecnologica di Homo sapiens, lo stacco tra noi e il resto della natura si va allargando.
Quasi tutto ciò che pensavamo fosse tipico della nostra specie esiste, allo stato embrionale, in altri animali: vari uccelli e primati utilizzano strumenti, trasmettendo le innovazioni culturali alla discendenza; i delfini usano le spugne per proteggersi il rostro nella caccia; le formiche tagliafoglie hanno inventato l’agricoltura e coltivano funghi; i nibbi australiani prelevano rametti infuocati da un incendio e bruciano l’erba per mangiare rettili e roditori in fuga. Quanto alle doti naturali, gli elefanti africani hanno un cervello con 250 miliardi di neuroni, tre volte più dei nostri. Ma non sono «quasi come noi», perché ogni animale è unico a modo suo.
Pensavamo di essere eccezionali nella separazione tra la riproduzione e il sesso, che pratichiamo anche per creare legami o per semplice piacere sensoriale. Rutherford, che ama sorprendere il lettore con le statistiche, ci informa che in Gran Bretagna ogni anno solo lo 0,1% dei rapporti sessuali completi sfocia nel concepimento. Ma i bonobo ci battono: un concepimento ogni 18.250 atti sessuali. Quanto alla menopausa, è rara in natura, ma ce l’hanno anche le orche e i globicefali.
Dove sta dunque la nostra unicità? In almeno due caratteristiche paradossali che, per Rutherford, abbiamo solo noi. La prima è l’abitudine di trasformare l’ambiente per i nostri scopi. Anche i castori lo fanno costruendo le dighe, ma noi andiamo ben oltre perché poi diventiamo dipendenti dalle trasformazioni che noi stessi abbiamo introdotto. Controlliamo il fuoco e inventiamo la cottura, questo ci dà un grande vantaggio evolutivo, ma il risultato è che oggi non potremmo più vivere con una dieta a base di soli cibi crudi.
Il nostro primo paradosso quindi è che attraverso le tecnologie cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Addomestichiamo piante e animali, facendo produrre agli ecosistemi un surplus di risorse senza precedenti, ma poi le pressioni selettive indotte dai nuovi alimenti modificano persino il nostro genoma, decretando per esempio la diffusione di una mutazione che consente (non a tutti) di digerire il latte anche in età adulta. I nostri figli sono «nativi» del mondo digitale perché abbiamo trasmesso loro non soltanto geni e idee, ma anche cambiamenti tecnologici che per noi sono rivoluzionari e per loro diventano normali.
La seconda cesura consiste nel fatto che Homo sapiens ha avuto due nascite, non una: la prima, anatomica, tra 300 e 200 millenni fa; la seconda, cognitiva, intorno a 75 millenni fa. Entrambe in Africa. Anche i Neanderthal avevano intelligenza simbolica e realizzavano arte rupestre in Spagna 20 mila anni prima che arrivassero i nostri. Ma poi abbiamo sommerso demograficamente i Neanderthal e tutte le altre specie umane. La nostra arma segreta fu la capacità, senza eguali, di accumulazione e trasmissione culturale, tema sul quale si incentra anche la riedizione postuma, appena uscita per Treccani, del saggio Evoluzione culturale di Luigi Luca Cavalli Sforza. Dalla nascita della modernità comportamentale in poi, i «solo noi» si sprecano: solo noi ci emancipiamo dalla cogenza degli istinti; solo noi insegniamo; solo noi abbiamo sintassi e grammatiche complesse; solo noi ci facciamo travolgere da mode effimere; solo noi facciamo della guerra un sistema per risolvere i conflitti (a Naturuk, Kenya, 10 mila anni fa, il primo massacro documentato dagli archeologi); solo noi disegniamo chimere uomo-animale, immaginando qualcosa che non esiste. Così venne il secondo paradosso: la percezione di essere speciali si è anch’essa evoluta, rendendoci una specie assai egocentrica.
Nessun interruttore, nessun singolo fattore miracoloso ci rese umani dall’alba al tramonto. Inutile cercare il gene risolutivo. Fu una transizione lunga e ingarbugliata, conclude Rutherford in questo libro meno originale del precedente Breve storia di chiunque sia mai vissuto (Bollati Boringhieri , 2017). Alla fine, tra effetti collaterali e riutilizzi di strutture già esistenti, spuntò l’inedito umano. Interrogarsi su che cosa ci renda speciali a modo nostro diventa una celebrazione della diversità della vita. Esserne consapevoli è una delle qualità migliori di Homo sapiens, la creatura più paradossale che la natura abbia mai inventato.