La Lettura, 26 maggio 2019
Biografia di Herman Melville
Quello di Herman Melville, di cui il 1° agosto ricorrerà il bicentenario della nascita, è un caso unico, anzitutto per due motivi. È considerato giustamente uno dei padri fondatori dell’identità o del cosiddetto spirito americano. Eppure questo contributo viene dato per lo più attraverso uno scetticismo e una critica indefessi della sua regolamentazione sociale e del suo atteggiamento morale (una decostruzione, si direbbe oggi), negli anni cruciali del passaggio dal mondo aristocratico alla democrazia. In secondo luogo, si tratta di una di quelle eccezioni rarissime in cui un narratore di straordinaria levatura si unisce a un poeta di qualità senza dubbio notevole. Viene in mente quanto a suo tempo Eugenio Montale scrisse a proposito di Thomas Hardy: «Non si ha notizia di un prosatore-pensatore che, su altro registro, sia stato tanto poeta-poeta». Ecco, proprio Melville, di cui Montale tradusse l’ultimo romanzo, Billy Budd, può legittimamente figurare in questa più che singolare casistica.
E dire che la sua vicenda di scrittore è praticamente spezzata in due. Il poeta nasce infatti sulle ceneri del narratore; o, per essere più pratici, la poesia s’innesta sul completo insuccesso dei suoi ultimi romanzi. E tra questi anche e soprattutto Moby-Dick, uscito nel 1851 (fa ancora impressione che questo capolavoro della letteratura di ogni tempo sia stato a lungo ignorato). Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, Melville si dedicherà esclusivamente alla poesia, per tornare alla narrativa ormai al termine dei suoi giorni, appunto con Billy Budd.
La critica biografica ha insistito forse troppo sull’oscurità, la ritrosia, più in genere la negatività della seconda parte della vita dello scrittore. Ma certamente la pressione materiale e psicologica a cui dovette far fronte non fu di poco conto. Dopo i viaggi straordinari sugli oceani e quelli, anche più smisurati, nei territori della propria immaginazione creatrice, visse quasi al buio, impiegandosi per un ventennio come ispettore alla dogana del porto di New York. Dal punto di vista pubblico era uno scrittore fallito, ma soprattutto si portava dentro gli stessi terribili rovelli e interrogativi sulla verità dell’esistenza e sul destino dell’uomo che già avevano preso corpo nei romanzi, e che il tempo e l’esperienza, anzitutto quella della Guerra civile (1861-1865), avevano reso se possibile ancora più tormentosi. Al di sotto della superficie, nel grande oceano interiore di Melville le cose non erano allora molto cambiate, non nella sostanza almeno. La stessa identica ricerca continuava senza interruzione, solo con mezzi e forme un poco diverse.
Ed è proprio in relazione alla guerra che il contributo di Melville all’immagine dell’uomo americano risalta in tutta la sua singolarità. A partire dal suo primo libro di versi, Pezzi di battaglia e aspetti della guerra, pubblicato nel 1866, a un anno dalla fine del conflitto, non mancano certo i componimenti di encomio o celebrativi scritti a ridosso degli eventi bellici. Era forse inevitabile per un newyorkese democratico fedele alle ragioni dell’Unione. Eppure il fiume più originale di questa poesia, probabilmente unico per quegli anni, scorre non tanto lì dove queste ragioni vengono meno, ma dove vengono comprese e smosse, quasi folgorate da una prospettiva insieme più ampia e più profonda, che è quella del destino tragico dell’uomo e del suo sacrificio al cospetto della natura, del cosmo, dell’imperturbabilità di Dio (un Dio dell’Antico Testamento), ma anche delle forze distruttrici da lui stesso create (è già una guerra d’impersonalità meccanica, questa sua, che procede quasi per forza d’inerzia). Come ha scritto Roberto Mussapi accompagnando la sua pregevole traduzione di una scelta delle poesie di Melville, «i suoi combattenti non sono eroi, ma piuttosto martiri» (si tratta dell’edizione riveduta e ampliata delle Poesie di guerra e di mare, uscita in questi giorni per Mondadori).
Ecco allora ciò che resta nel buio seguito alla battaglia attorno alla chiesa di Shiloh: «Nemici morenti, lì mescolati/ nemici al mattino, ma amici alla sera/ indifferenti alla gloria e alla patria,/ disingannati dalla verità di un proiettile.../ ma adesso giacciono distesi/ sopra di loro il volo raso delle rondini/ e il grande silenzio, a Shiloh». In questo requiem non c’è nulla che venga ricomposto, nulla che venga davvero assolto. Ciò che accomuna le vittime di una parte e dell’altra è invece l’insensatezza, la violenza del tutto, l’ingiustizia della morte. Solo il silenzio rimane. Anche se i poeti veri difficilmente non trovano un punto in cui riconoscersi e darsi la mano, qui la differenza col grande padre Whitman, nato proprio il 31 maggio di 200 anni fa – in realtà una madre, perché accogliente, comprensivo, protettivo – diventa perfino eclatante. Se questi inserisce le vicende del singolo in una corrente più ampia e forte che è quella della vita del tutto che comunque procede e si rinnova (una sua poesia s’intitola Riconciliazione), l’universalità di Melville sta invece nel riconoscimento di una ferita insanabile, tragica a tutti gli effetti. Di qui la sua distanza anche da Thoreau, da Emerson e dalle prospettive pacificatorie del trascendentalismo. All’interno della positività e della fiducia del cosiddetto Rinascimento americano, come a partire dal grande libro di Francis Otto Matthiessen (amatissimo dal nostro Cesare Pavese) si definisce ormai per convenzione l’incredibile fioritura della letteratura nordamericana a metà dell’Ottocento, la posizione di Melville, come e più di quella di Nathaniel Hawthorne, è quasi quella di un eretico. Ben al di là di ogni idealismo, la guerra per lui non è altro che una «lurida macchia impressa nella fede repubblicana/ che ti dice che l’uomo è buono per natura/ anzi il Romano della natura, mai da frustare».
La ferita, il dissidio, anzi il difetto stanno dentro all’uomo, fanno parte di lui. E non sono superabili. Le poesie lo ripetono almeno quanto i romanzi, che del resto ben prima della guerra raccontano invariabilmente di conflitti esistenziali che assomigliano a grandi eventi primordiali, cosmogonici, in quanto assieme all’uomo chiamano sempre in causa le forze del mare, del cielo e della terra. La prospettiva di Melville è tragica. Antichissima, dunque, eppure svolta attraverso una sensibilità nuova. «Orrore e angoscia», come diceva. Il suo riferimento fondamentale non a caso resta sempre Shakespeare (da cui tanto già aveva appreso, ad esempio per i dialoghi di Moby-Dick), con le sue situazioni senza via d’uscita e la coesistenza dei contrasti. Anche Melville è così: bene e male, dubbio e fede, cuore e intelletto, pensiero e azione, realtà e ideale (spleen e ideale, diceva in quegli stessi anni Baudelaire in Europa): «L’Amleto del suo cuore sapeva/ che tali cuori oltrevedono/ e nessuna sorpresa coglierà chi giunge/ nel nucleo segreto di Shakespeare:/ ciò che cerchiamo e fuggiamo è lì,/ l’estrema conoscenza umana». L’uomo è solo, e non può far altro che continuare a cercare. Questo scrittore mai dimentico del peccato originale, era un precursore.