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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Biografia di Wal Whitman

A un critico che le chiedeva se conoscesse Walt Whitman e cosa ne pensava, Emily Dickinson, nella primavera del 1862, rispose che non l’aveva letto, ma aveva sentito dire (chissà da chi) che era «una persona vergognosa». Così Mario Corona, nella sua bellissima e recente edizione di Foglie d’erba, traduce il pesante aggettivo usato dalla perfida Emily: disgraceful. Oggi una signora benpensante potrebbe apostrofare in modo analogo Michel Houellebecq (o magari Alain Delon). Nel 1862 Whitman aveva 43 anni e si era appena lasciato alle spalle, tra Boston e Philadelphia, la terza edizione del suo libro, quel canzoniere intitolato Foglie d’erba destinato a crescere per mole e ambizioni fino agli ultimi giorni del poeta (tanto è vero che gli studiosi parlano dell’ultima come dell’edizione «sul letto di morte»).
Nonostante l’età ancora relativamente giovane, era già diventato quell’incredibile monumento a sé stesso offerto all’adorazione prima dei suoi compatrioti e in seguito del mondo intero. Sarà per la somiglianza delle foltissime barbe canute, o per la naturale inclinazione pedagogica e profetica, ma un carisma simile lo so riconoscere, in tutto quel secolo, solamente a Tolstoj e (in parte) a Victor Hugo. Ma il paragone regge solo fino a un certo punto: il russo e il francese sono gli autori di un’opera sterminata, mentre Whitman punterà le sue carte su un solo libro-albero, che cresce nel tempo moltiplicando le sue fronde, nutrito da tutto ciò che può ricavare dal suolo dell’America: metafisica e cronaca quotidiana, sentimento del destino individuale e percezione modernissima del potere delle masse, eroismo ed erotismo, malinconia ed entusiasmo panico. L’unico libro che assomiglia davvero a Foglie d’erba, per il carattere inaudito dello stile e l’ambizione di totalità che lo sostiene è Moby-Dick, e il fatto che Melville e Whitman siano nati nel 1819 e fossero quasi conterranei non sembra privo di un significato da meditare.
È ben nota la differenza dei destini, degni di una nuova «vita parallela» alla Plutarco: umiliato e rattristato dall’insuccesso il romanziere, costretto a guadagnarsi il (misero) pane lavorando vent’anni alla dogana di New York; sempre più venerato il poeta, che accoglieva i visitatori nella modesta e disordinatissima casetta di Camden, sulla sponda opposta a Philadelphia del fiume Delaware. Eppure, qualcosa di più profondo sembra accomunarli: la tensione verso il futuro, l’idea che il lettore veramente adatto al loro azzardo ancora dovesse nascere. Bisogna aggiungere che oggi l’edificio di Foglie d’erba scricchiola molto più di quello di Moby-Dick, libro perfetto in ogni minimo dettaglio se mai ce ne furono.
Tra i poeti supremi della storia umana (rango che indubbiamente merita) Whitman è colpevole di un numero imbarazzante di versi e interi componimenti non degni della sua fama. La sua opera si presta volentieri a tagli antologici: e se una volta era l’eros omosessuale a imporli agli editori più timorati, oggi sono considerazioni estetiche a prevalere nelle scelte, orientandole verso i capolavori, primo fra tutti il Canto di me stesso. Tutto questo ha un senso: eppure, contemplando solo il bello e il sublime, è la formidabile macchina epica e lirica, civile e amorosa delle Foglie d’erba che va perduta: quella capacità del grande libro di fornire un’immagine, un equivalente verbale credibile dell’America (e dunque del mondo) nel suo viluppo inestricabile di contraddizioni e forme di esistenza. Solo una nuova forma metrica, tanto libera quanto prensile, con quei versi lunghissimi che sembrano scandire il pensiero a colpi di martello, evidenziando superbamente la natura ritmica e melodica della sensibilità e dell’immaginazione, potrà essere adeguata alla dirompente intuizione iniziale, dalla quale la poesia di Whitman non si allontana mai.
Quest’ intuizione profonda riguarda il rapporto tra il poeta e il mondo, ovvero tra l’uno, con tutta l’irriducibile singolarità del myself, e il molteplice, che l’individuo non si limita a contemplare e celebrare. Baudelaire, che pubblicò I fiori del male pochi anni dopo la prima edizione di Foglie d’erba, percepiva acutamente l’arcana rete di analogie che sfuma ogni confine netto tra i fenomeni; Whitman non avrebbe avuto nulla da eccepire di fronte a tale simbolismo, ma in lui, su ogni semplice analogia, finisce per prevalere uno slancio mistico di identificazione, perché il poeta è l’uomo in grado di vivere tutte le vite, e il suo punto di vista non potrà, se la sua è vera ispirazione, che aspirare all’universale. Ecco il supremo paradosso della poesia di Whitman quando raggiunge il suo limite di intensità e chiaroveggenza: il canto del singolo, proprio perché scaturisce da un’esperienza irripetibile e inimitabile, è il canto di tutti. Perché la materia di cui è tessuto questo song of myself è proprio ciò che non è lui, cose e persone che gli sono entrate dentro o ha percepito uscendo da sé stesso, proiettandosi e rispecchiandosi nell’alterità. Ed ecco, in un famoso elenco che sembra un po’ il compendio della sua poesia, il falegname che leviga la sua tavola, il cacciatore di anatre che avanza con passo felpato, il pazzo incurabile che viene portato al manicomio, il fumatore d’oppio con le labbra socchiuse, la prostituta che camminando strascina il suo logoro scialle, i manovali che camminano in fila indiana con il secchio in spalla e innumerevoli altri rappresentanti di un’umanità sempre nobile nell’aderenza al destino, scolpiti uno a uno dal verso che li nomina e con un pugno di sillabe trasforma l’effimero in eterno. E se questo è il loro essere, «così più o meno sono io». Dove la cosa più geniale e memorabile, davvero degna di un grande poeta, è quel «più o meno», perché non si può nemmeno negare del tutto che le differenze esistano, e che la commedia umana sia degna di essere raccontata nella sua infinita varietà. Ma tutto ciò che vive è legato dalla profonda solidarietà del creato: porta in sé il duplice mistero della bellezza e della morte.
È questo il supremo insegnamento di quella che Jorge Luis Borges, con uno splendido ossimoro, ha definito l’«impetuosa umiltà» di Whitman. Che non sembra poi molto lontana dalla «competenza in umiltà» che un grande critico, Gianfranco Contini, attribuiva a Pier Paolo Pasolini. A chi ancora oggi ha la fortuna di leggere Foglie d’erba quando è molto giovane, quando ancora non è stato corrotto dai pregiudizi, dal disincanto, dall’eccesso di sapere che tutto polverizza, Whitman potrà apparire indelebilmente, con tutti i suoi difetti, come il vero, l’autentico poeta. Colui che ci ha insegnato a non mettere limiti all’empatia, e dunque a non soccombere alla triste prigionia dell’identità. Perché alla fine ha sempre ragione lui, noi siamo tutti gli altri, tutti gli altri esistono in noi. «Più o meno»: e dunque in modo anche più vero.