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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Quando un Paese diventa un insulto

Il più scalognato è il bulgaro. «Maggioranza bulgara» nel linguaggio di tutti i giorni è praticamente sinonimo di unanimismo stalinista, acritico, servile e sinistro. L’«Editto bulgaro», più recente e controverso, sta ormai per messa al bando, epurazione, ostracismo. Fuori dalle palle, per restare in tema. E la «Chiave bulgara» è persino peggio visto che trattasi della chiave universale che apre ai ladri anche le serrature più sofisticate. Verrebbe quasi da parafrasare: meglio un morto in casa che un bulgaro sull’uscio. Bulgaro come insulto, bulgaro come sfottò. 
Ma il turco non se la cava meglio, anzi. «Cose turche» sta per brutte cose comunque la metti giù. «Bestemmiare come un turco», modo di dire che risale addirittura alle crociate, qualifica come blasfemo esagitato e pertinace, ai confini dell’esorcismo. Sorvoliamo sul «cesso alla turca» per evitare un bagno di sangue. 
Sembrano casi invece sono la norma: l’appartenenza geografica come colpa, almeno agli occhi degli altri, l’etichetta che ti qualifica per quello che non sei. In pratica quando un Paese diventa un insulto, ai tempi tragicomici del razzismo più o meno immaginario, come se non bastassero gli improperi che galleggiano su quella cloaca quotidiana che sono i social. Modi di dire radicati nel parlare trasversali e universali. Vito Tartamella, studioso da anni della parolaccia e titolare del celebre sito parolacce.org, ha scovato nella sua ultima ricerca 34 termini insultanti a base geografica. La maggioranza, spiega Tartamella «ha una storia secolare, che si è sedimentata nella nostra lingua al punto che non ci rendiamo conto che questi termini nascono da una mentalità stereotipata se non addirittura razzista». Ha accompagnato la ricerca con una serie di dati: il 38,2% di questa brutta abitudine riguarda l’Europa, il 29,4% il Medio Oriente, il 14,7% l’Asia, l’11,8% l’Africa e il 5,9% l’America. Insomma tutto il mondo è Paese.
L’italiano poi, manco a dirlo, è ricco di offese, o di parole che vogliono suonare offensive, a sfondo geografico: lesbica, mongolo, portoghese. Ma il fenomeno non è solo nostro. Tanto per fare qualche esempio: per dare dell’idiota i russi dicono tarskiy reyenok, «figlio di un tartaro«, gli svedesi rysk «russo)», i turchi dicono arap akli «testa araba», gli svedesi finnhuvud «testa finlandese», e gli spagnoli hacerse el sueco «fare lo svedese». 
E ogni Paese, attraversato nei secoli da epidemie distruttive, ha sempre rifilato ad altri il ruolo malato dell’untore: la stessa malattia era nota in Italia come «mal francese» o «morbo gallico» e in Francia come «mal florentin», «mal napolitain» o «mal d’Espagne». I portoghesi lo chiamavano «mal de Castilla», i tedeschi «spanische Krankeit».
Molti a dire il vero nemmeno sanno quello che dicono. Beota, sinonimo di ignorante, è in realtà un abitante della Beozia, regione storica della Grecia centrale. Che per inciso, gli ateniesi giudicavano ottusi e ignoranti. Così come il milanesiggiante «baluba», che non è solo uno zotico ignorante nella vulgata popolare, ma, nella realtà, un popolo di etnia Bantu della Repubblica Democratica del Congo. Così come «baldracca», l’avreste mai detto? è un’alterazione di Baghdad (non di Bhutan...)
Morale: mammalucchi o mongoli che siate comunque più attenti alle parole che usate con gli altri. Non fate gli indiani...