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 2019  maggio 26 Domenica calendario

L’Everest è mistico, ma in solitudine

La coda per salire sulla cima più alta del mondo, l’Everest, con i suoi 8.848 metri, assume un significato unico e assoluto, anche se non è da oggi che sappiamo che è così: l’illusione (perché occorre ricordarlo di un’illusione si tratta pur sempre), che non esistano differenze tra alto e basso, ovvero fra il luogo più elevato al limite della sopravvivenza umana e i luoghi accessibili senza fatica, raggiunge con questo episodio il suo apìce simbolico. Trasfigurando le foto che stanno circolando in questi giorni, viene facile immaginare una variante dei gironi danteschi raffigurati da William Blake in cui gli alpinisti incedono trascinando il passo, su piedi sbilenchi che indossano i ramponi come fauci infernali, appoggiandosi a piccozze dal profilo ferale e alle spalle di chi li precede, fra conati di vomito, imprecazioni, grida.
Ma poiché, come detto, la differenza rimane, qualcuno muore, fra terribili sofferenze. La death zone o zona della morte, collocata sopra gli 8mila metri di altitudine, è stata considerata per molti anni una quota inaccessibile per l’essere umano che, senza ossigeno supplementare, non avrebbe potuto sopravvivere a quell’altezza. Messner, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, non dimostrò il contrario ma, avendo salito per primo le 14 cime che superano gli 8mila metri senza l’uso delle bombole, testimoniò le minime possibilità vitali dell’uomo sopra gli 8mila: la resistenza a quelle condizioni, anche in soggetti ben acclimatati, è molto limitata nel tempo, perché il corpo va in ipossia per poi cedere. Ecco perché, fra gli alpinisti in coda, qualcuno non ce l’ha fatta.
Ora, questo Everest, queste «montagne estreme di massa», non hanno nulla a che vedere con l’immagine delle montagne che ci restituiscono libri come il Monte analogo di René Daumal o come Gasherbrum IV di Fosco Maraini. Nulla a che vedere con l’esperienza individuale di alpinisti, o uomini dalla sensibilità raffinata, che hanno praticato l’estremo, oppure l’hanno pensato, con piena consapevolezza di una differenza irriducibile.
Il filosofo Francesco Tomatis, in Filosofia della montagna, annota che il presupposto dell’andare in montagna, se la salita non è ridotta a un’attività alpinistica, cioè esclusivamente fisica, è riassunto della massima di Plotino che diceva: «Spogliati di tutto». L’attività alpinistica diviene qui alpi-mistica. Che, forse, è la sola attività plausibile in determinate condizioni. L’isolamento consente di confrontare, in silenzio o nel boato della bufera, le due dimensioni incomparabili del «grande e infinito» con il «piccolo e finito».
Mentre la cronaca di questi giorni, al di là delle intenzioni dei singoli dichiarate nei più svariati messaggi social, ci mette di fronte all’esperienza del narcisismo individuale. Non a caso, è la stessa esibizione sui social network della propria salita in tempo reale, a smascherarne la finalità narcisistica, esclusivamente fisica, non metafisica.
«Noi che abbiamo provato diceva Bonatti – la solitudine e il contatto con la morte sapevamo di avere tra le mani le redini della nostra sopravvivenza e abbiamo risposto alle leggi naturali, ci siamo nutriti per vivere, abbiamo ritrovato la nostra animalità. Quando sono ritornato, dopo mesi di vita, in quelle dimensioni, mi sono ritrovato in una realtà nella quale mi sembravano tutti matti. Inseguivano cose che per me non avevano alcun valore». Seguendo lo spirito di questa affermazione di Bonatti, oggi non ci sarebbero code in cima a nessuna montagna.