il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2019
Amazon e il lavoro come un videogioco
Come diceva sconsolato il Lulù di Gian Maria Volonté “anche lo scimpanzè crede di essere uomo, povera bestia”. L’operaio Massa di cognome e di fatto ci è tornato in mente leggendo giorni fa sul Washington Post della splendida idea di Amazon, che in alcuni dei suoi enormi magazzini americani sta sperimentando l’applicazione di videogiochi al lavoro degli operai della logistica: “Pensate a Tetris, ma con scatole vere”. In sostanza, mentre accumulano pacchi, pacchetti e scatoloni da consegnare, su uno schermo prende vita un videogioco con tanto di punti e premi: vince, ovviamente, chi smaltisce più lavoro nel minor tempo possibile. Il premio – giurin giurello – sono magliette, gadget e altre cazzate aziendali. È la cosiddetta gamification, cioè l’applicazione dei contenuti dei giochi e del game design al lavoro, già largamente sperimentato da aziende come Uber che mette in palio premi in (poco) denaro per chi raggiunge obiettivi scelti dall’azienda (tipo 60 corse a settimana). Come dice il Washington Post: “L’esperimento di Amazon fa parte di una più ampia spinta alla gamification dei lavori meno qualificati, in particolare perché storicamente la bassa disoccupazione ha fatto salire gli stipendi”. Son problemi. Il più grosso è questo: dopo un po’, dicono gli esperti, la competizione non è più divertente, specie per quelli che perdono. Anche l’operaio di Amazon si crede uomo, povere bestia, direbbe Lulù Massa: la gamification, ai tempi de La classe operaia va in paradiso, si chiamava cottimo e aveva almeno il pregio dell’onestà.