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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Biografia di Anna Bonaiuto raccontata da lei medesima

“Non ho mai giocato con le bambole, non ho mai pensato al velo da sposa; avevo una banda, io il capo, organizzavo i furti di frutta, una pera, una mela il bottino. Niente di che, solo per brivido. Poi mentre assaporavamo il maltolto, raccontavo alla combriccola il film che avevo visto nei giorni precedenti, il mio pezzo forte era Le spose di Dracula (horror del 1960). Mi piaceva l’attenzione. Per questo poi ho aperto un piccolo teatro nel garage di mio padre, con tanto di tenda: io da una parte, i ragazzini-spettatori dall’altra. Recitavo e obbligavo le mie sorelle a seguirmi: le vestivo, truccavo, davo le battute. Non erano contente, ma era la mia prima compagnia”. Il passo successivo di Anna Bonaiuto è stato “solo” quello di spiegare al padre la scelta di vita. “E mi ha cacciata da casa”.
Finta primavera romana, il profumo del limone in casa, libri ovunque, anche se ordinati, copioni, memorie, dvd. Si affaccia alla finestra e inquadra la sua vita attraverso uno scorcio: “Quando sono arrivata a Roma sognavo di poter godere un giorno di questa vista”.
L’ostilità di suo padre è stata di stimolo?
Alla lunga e forse anche alla corta, è una sensazione orribile, la mia vita era lì, insieme alle mie sorelle; d’altra parte quello strappo ha generato una forza pazzesca, ma con una ferita non rimarginabile. André Gide diceva: “È facile liberarsi, è difficile rimanere liberi”.
Come si manteneva?
Grazie a una borsa di studio dell’Accademia Silvio D’Amico, ma durava solo per i mesi dei corsi, l’estate restavo scoperta, e mi arrangiavo.
Tosta.
Anche l’inverno non era semplice: la sera mangiavo quasi sempre supplì, a un certo punto mi sono scoperta con qualche chilo in più, quell’over tipico di chi si nutre male.
La sua famiglia?
Borghese benestante, mi tagliarono i viveri con la convinzione che sarei tornata a casa, che non avrei retto.
Sua madre d’accordo?
Succube.
Le sorelle?
Complici con me, come la nonna, ma in casa regnava il terrore, la legge di papà; poi la sua sfortuna è l’aver avuto quattro figlie femmine, lui donnaiolo, era categorico nelle convinzioni.
Contrappasso.
Per lui le donne o si sposavano o erano perdute.
Quando ha scoperto che era un donnaiolo?
In adolescenza.
Uno choc…
Terribile, poi vivevamo in un paese, quindi lo sapevano tutti, tranne noi.
Roma negli anni 70.
Città meravigliosa, la Capitale era il regno degli artisti del mondo, scoprivano Roma attraverso le trattorie, le piazze, la bellezza diffusa; trovavi hippy, poeti, intellettuali mischiati.
Epoca da mezza porzione.
E il massimo dell’esotico poteva arrivare dalle penne alla vodka; però seduti a quei tavolini respiravi il mondo; i turisti neanche li ricordo, qualcuno lo trovavi a Fontana di Trevi, non a Trastevere, anche il Colosseo non era vissuto come oggi, diventato star mondiale anche grazie a film come Il Gladiatore e La grande bellezza.
La sua quotidianità.
Studiavo, e studiavo, amici, rapporti, scambio di idee, politica, manifestazioni, poi la domenica andavo a Porta Portese per cercare i vestiti, amavo gli abiti di seta degli anni 30, costavano mille lire.
Politicamente impegnata.
Mi sono trovata in mezzo a situazioni non semplici.
Più vicina al Pci o ad altre realtà?
Più extra.
Qualche compagno che si è “perso”, lo ha conosciuto?
Be’, sì. Pochi. E dei problemi li ho vissuti a causa del mio senso ironico.
Cosa è accaduto?
Un giorno in piazza Navona prendo un volantino, lo apro e trovo la stella a cinque punte. Lo leggo: era pieno di errori di grammatica: “Ma si può scrivere così?”, penso. Lo piego, lo metto nel borsellino, “i miei amici lo devono leggere”.
Poi?
Da vera brigatista perdo il borsellino, con il foglio accanto alla carta d’identità; da quel giorno ho passato l’inferno: interrogatori, perquisizioni in casa, controlli; ero talmente tranquilla da essermi presentata senza avvocato.
Ahi.
Non è finita: circa 15 anni fa mi chiamano i carabinieri: “Buongiorno, vorremmo interrogarla come persona informata sui fatti”. Quali? “Il rapimento Moro”.
È andata?
Per forza, ma alla fine è stata una chiacchierata; il bello è stato Paolo Sorrentino mentre preparava Il Divo: “In tre o quattro saggi dedicati a Moro ho trovato il tuo nome”.
Perfetto.
Secondo la tesi di un libro, il grande vecchio, chi orchestra tutto, è Marco Bellocchio e io sono l’assassina di Moro. Si rende conto?
Come si è salvata dagli anni Settanta?
Grazie al teatro: la mia vita era già quella, lo strappo con mio padre non poteva avere altro scopo, ma non per questo ho rinunciato al mio impegno civile. Nel 2001 sono andata a Genova, per salvarmi dagli scontri mi sono infilata dentro un portone di piazza Alimonda (dove hanno ucciso Carlo Giuliani); ero con mia sorella e mia nipote.
Stéphane Hessel nel 2010 ha pubblicato “Indignez-vous!”. Lei si indigna ancora?
Sì, specialmente in questo momento: c’è uno spegnimento del pensiero.
Anni fa ha individuato nella tv il “grande nemico”.
Informa ma non comunica, oramai funzionano solo le frasi da bar, quelle più aggressive; si è sdoganato tutto.
“Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti.
È verissimo, ma oramai sono svuotate del loro senso profondo; sorrido quando vedo Massimo Cacciari che non si arrende, e offre l’etimologia dei termini.
Torniamo al teatro: lei e il palco.
Ancora tremo alle prime, e credo sia un bene: in teatro non bisogna essere troppo sicuri, mai arrendersi alle proprie presunte capacità; è fondamentale la lotta con il narciso insito in noi, è l’ego a impedire di guardare attorno.
Di narcisi è pieno.
Ce ne sono tantissimi; ho conosciuto i più grandi, e più grandi sono e meno pronunciavano il pronome “io”.
Carmelo Bene, sì.
Era il suo gioco, la sua invenzione, il suo “io” lo portava ad apparire alla Madonna: uno così non lascia eredi. L’ultima volta che l’ho visto recitare è stato sublime: alla fine della recita sono partiti venti minuti di applausi, un’ovazione. Lui usciva e rientrava. Usciva e rientrava. All’ennesima ha detto al pubblico: “Vi invidio”. Solo lui poteva.
Oltre agli spettacoli con gli amici, come nasce la sua passione?
Dalla televisione: negli anni Sessanta potevi trovare serate dedicate al teatro, con i più grandi del periodo impegnati ne I demoni, o ne I fratelli Karamazov, con dialoghi lunghi un quarto d’ora. E li vedevamo. Ora se una scena dura più di un minuto e mezzo, si cambia canale.
Siamo figli degli spot.
In molto cinema statunitense un’inquadratura dura un secondo e mezzo, massimo due; io stessa prima di andare a teatro domando “quanto dura?”; o è un capolavoro, o oltre l’ora e mezza mi suicido.
Si è impigrita?
Mi informo, non voglio brutte sorprese. Altrimenti a teatro soffro, non sopporto truffe.
Se qualcosa non le piace, lo dice?
Se sono amici, sì.
Come viene giudicata dai colleghi?
Da alcuni antipaticissima; poi chi mi conosce mi adora.
Di cosa l’accusano?
Dico ciò che penso; se poi giudico uno come cretino, quel giudizio appare nitido sul mio volto.
È pericolosa alle cene.
Vedo solo chi mi piace. Mai stata mondana.
Meglio mantenere un velo davanti all’ego.
Se una persona è un grande artista e la sua opera è alta, certi atteggiamenti, o debolezze, si perdonano.
Quali sono le sue debolezze?
Infinite, non si possono raccontare.
Nessuna?
Il più grande difetto è la scarsa ambizione, mai pensato “mo’ spacco tutto”, e poi sono una dissipatrice della vita e del tempo.
Come mai?
Un po’ sono stata fortunata: il primo ad avermi chiamata è stato Luca Ronconi, poi sono arrivati Carlo Cecchi, Mario Martone e Toni Servillo; insomma, sono sempre stata cercata, mai faticato.
È un’attrice cangiante.
È qui il divertimento, altrimenti pensi di bastare da sola; l’attore è un tramite, è un fiume carsico che entra in un modo e ne esce arricchito.
Si è mai sentita sexy?
No. Mai. Ho sempre ritenuto il mio corpo e il mio viso come l’aspetto meno interessante da offrire.
Nel manifesto de “L’amore molesto” lo è. 
Adriano Sofri dalla galera mi chiese la locandina.
Anche in “Loro”…
Lì ero un mostro.
In “Loro” spiega così il rapporto tra il suo personaggio e Berlusconi: “Siamo legati da una lunga amicizia e dallo stesso chirurgo plastico”.
Battuta fantastica, è una delle genialità di Sorrentino: è un grande sceneggiatore.
L’ha voluta ne “Il Divo”.
Lì sono stata carina.
Se si definisce “carina” non è più credibile.
Allora diciamo che la parte è venuta bene, ma questo è un lavoro collettivo, e il regista è la chiave: la scena con me e Servillo, seduti mano nella mano, mentre vediamo Renato Zero, è merito della genialità di Sorrentino.
Il regista è fondamentale.
È il padrone nel bene e nel male, molto più che a teatro.
Si annoia a recitare nei film?
È meno interessante; a teatro entri con un passo e devi mantenerlo per delle ore, non puoi sbagliare, devi affrontare l’imprevisto e superarlo; nel cinema non è così, ora sto girando con Nanni Moretti e i ciak sono infiniti.
È celebre anche per questo.
A me sembrano tutti uguali, il primo come il secondo, forse variano per delle sfumature, ma lui arriva pure a trenta.
Ribadisco: è celebre.
Un perfezionista assoluto, ma i suoi film lasciano sempre un segno; poi è intelligente, spiritoso e soprattutto ha un’etica. Sorrido perché anche lui, come me, è considerato un grande antipatico.
Le piace andare in tournée?
Da sempre parto con la Guida Michelin e quella del Touring, così associo un posto da vedere a un ristorante di qualità, altrimenti è la morte.
Il post-teatro è fondamentale per gli attori…
E diventa esasperante, a volte di una noia micidiale: non sempre sai cosa dirti.
Cosa pensa del #MeToo?
Quando a mio padre chiesi “perché non posso diventare attrice”, lui rispose: “È una vita che si svolge prevalentemente di notte”. Ecco, vengo da quella storia lì, quindi conosco benissimo cos’è la violenza, che ha vari gradi e forme: da quella di gruppo, a quella sulle bambine fino a chi per strada urla “ma chi te se scopa, sei una racchia!”.
E…
È accaduto anche a me di ottenere un appuntamento con un produttore, lui lo fissava alle sette di sera e a un indirizzo; poi scoprivi che era casa sua, già organizzata con le luci soffuse e un bicchiere di whisky; ma nessuno mi ha mai messo un coltello alla gola o la pistola sul tavolo; dopo tre secondi capiva di aver sbagliato persona.
Woody Allen è boicottato negli Usa.
Qui sono combattuta.
Perché?
Il più grande regista del mondo è Charlie Chaplin ed era uno che sul piano personale era decisamente discutibile, con lati aberranti.
La soluzione?
Non ho la risposta. Trovo però che gli statunitensi hanno un atteggiamento puritano e ipocrita; secondo i loro parametri non dovrebbe girare più nessuno. Però resta un punto: è giusto denunciare e le donne devono restare unite e non sentirsi sole. Io sono una privilegiata, aiutata da carattere ed educazione.
Se dovesse scegliere, quale suo film riguarderebbe?
Teatro di guerra. Lì c’è un’attrice che litiga con il regista e per cambiare aria va in un teatro d’avanguardia, ma anche lì affronta delle stronzate.
Manda a quel paese i registi?
È successo.
Ha mantenuto intatti i suoi ideali da ragazza?
Ho realizzato ciò che volevo. Quindi penso di sì.
Lei alla regia.
Ci sto pensando. Finora ho rinunciato per timore… È finita?
Sì.
Le posso leggere una frase di Puškin? “Più della meschina verità mi è prezioso l’inganno che mi sublima, e su quest’inganno piangerò tutte le mie lacrime”.