Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2019
Un museo per scoprire la vita in miniera
Oggi è un museo. Con gallerie e macchinari spenti, edifici costruiti con cura e buon gusto. Carte geologiche, libri e documenti che raccontano il mondo e quell’industria all’avanguardia nata quasi duecento anni fa. E la storia di un imprenditore visionario, Giovanni Antonio Sanna di Sassari, che grazie ai profitti della miniera di piombo e argento a Montevecchio, nelle colline di Guspini in Sardegna, «contribuì a finanziare lo sbarco dei Mille».
Coinvolto nell’avventura dal prete Giovanni Antonio Pischedda conosciuto a Marsiglia, Giovanni Antonio Sanna riuscì a trovare sostegno economico a Genova per costituire la società in accomandita per azioni. Poco più avanti ottenne anche l’atto di concessione perpetua dal re Carlo Alberto. Poi la produzione e l’estrazione della galena da cui si ricavava piombo e argento.
Montevecchio, con i suoi 1.100 lavoratori, nel 1865 divenne la miniera più importante e ricca dell’intero regno. Un’avventura «eccezionale e all’avanguardia in un luogo che produceva ricchezza», per usare i termini di Tarcisio Agus, presidente del Parco Geominerario della Sardegna e autore di numerosi volumi sulla storia mineraria. «Oltre ad essere visionario, Giovanni Antonio Sanna, è stato anche l’imprenditore rivoluzionario, deputato e amico di Mazzini, che ha creato le condizioni per costruire un sistema industriale moderno. Non dimentichiamoci che, e lo dicono le carte, con i profitti della sua partecipazione alla gestione della miniera, fu tra i finanziatori dello sbarco dei mille».
Il cammino nei decenni successivi e nella prima metà del 900, forte di una produzione che riusciva a soddisfare il 60% del fabbisogno nazionale di piombo e il 40% di argento, è stato un crescendo di tecnologia, cultura, arte e sperimentazione sociale. «Giovanni Antonio Sanna era un amante del bello, basta vedere la cura con cui sono realizzati gli edifici e l’intero compendio minerario».
Case con decori, immobili «costruiti per durare nel tempo arricchiti da affreschi, sculture e quadri». Un universo a parte, rispetto agli altri centri urbani, autosufficiente ma con aperture internazionali, attento alla cura dei suoi abitanti che erano i dipendenti. Case a schiera o piccoli condomini dotati di energia elettrica e acqua, scuola e borse di studio per i figli del personale, la Società di mutuo soccorso a gestione mista per il sostegno alle famiglie in caso di necessità. E l’ospedale con il primo macchinario per lo studio della silicosi. Eppoi la moneta interna utilizzata per pagare una quota degli stipendi, valida nel circuito aziendale ma ricercata anche dai commercianti che operavano fuori dalla «cinta mineraria». Perché, argomenta Agus «in questo modo potevano acquistare negli empori aziendali. Che giovandosi dei collegamenti internazionali della società, riuscivano a portare beni di difficile reperibilità sui mercati locali». Poi l’espansione, con l’acquisizione delle vicine miniere Ingurtosu e Monteponi e il progressivo declino. L’avvio della statalizzazione con la Montedison, la fermata degli impianti e la chiusura.
Quelle storie oggi sono raccontate nei quaderni di cantiere che i ricercatori hanno recuperato e catalogato, nei referti sanitari degli operai o dei familiari, ma anche nell’architettura e ingegneria degli impianti. Un nuovo corso. Quello di un museo che vede anche quella miniera candidata come area industriale per il 2019.