Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2019
L’autobiografia di Paul Volcker
Paul Volcker è un esemplare servitore della cosa pubblica, figura di spicco fra i governatori delle banche centrali, stimatissimo dalla Banca d’Italia ed estimatore a propria volta di Via Nazionale. Dopo gli studi a Princeton, Harvard, London School of Economics è stato giovane economista alla Fed di New York, poi al Tesoro con Robert Roosa, quindi Sottosegretario al Tesoro dal 1969 al 1974, presidente della Fed di New York dal 1975 al 1979, infine al vertice del Federal Reserve System dal 1979 al 1987. Da ultimo il presidente Obama si è rivolto a lui dopo il mancato salvataggio Lehman per orientare la riforma del sistema finanziario.
Negli intervalli fra gli incarichi pubblici ha operato presso Chase, Brown Brothers, Wolfensohn, ha insegnato in prestigiose università, ha diretto gruppi di lavoro su questioni amministrative e finanziarie di rilievo.
Forte di un prestigio pari alla sua statura fisica di oltre due metri – volle provare a entrare, riuscendovi a stento, in una Fiat 500 («cos’è quell’oggetto?») parcheggiata nel cortile della Banca d’Italia! – questo signore ultranovantenne offre con la sua autobiografia un ulteriore, inestimabile servigio al governo del suo Paese e dell’economia mondiale.
Al di là dei ricordi personali e familiari, il libro – dal titolo che tradurrei “Non mollare!” – getta nuova luce su snodi cruciali della economia dal Dopoguerra a oggi. Gli anni Cinquanta, nonostante il conflitto coreano, videro negli Stati Uniti coesistere crescita della produzione (+5% l’anno) e stabilità dei prezzi (+2% l’anno). Le previsioni stagnazioniste alla Alvin Hansen, teorico di Harvard, furono smentite. Dopo l’Accordo che la sciolse nel 1951 dall’obbligo di sottoscrivere titoli di Stato contratto nel 1942, sotto la direzione dal 1951 al 1970 di William McChesney Martin – «schiena dritta, di ferro, è stato uno dei miei eroi» (p. 35) – la Fed consolidò la sua autonomia. Gli obiettivi della stabilità monetaria e finanziaria vennero con forza riaffermati, mentre veniva rifiutata la proposta teorica avanzata da Milton Friedman di un monetarismo estremo, meccanicistico. Da allora il dovere della Fed, come Martin asseriva, è divenuto «quello di sottrarre la caraffa dell’alcool propri o quando la compagnia si stava davvero scaldando» (p. 31).
Persino Martin vi riuscì solo in parte negli anni Sessanta. Nella seconda metà del decennio le spese per la guerra del Vietnam non vennero coperte con imposte, l’economia si surriscaldò e «la Fed fu lenta nel prendere altre misure restrittive» dopo il rialzo del tasso di sconto del dicembre 1965 (p. 55).
I germi della Grande Inflazione degli anni Settanta vennero inoculati allora. Ma uno squilibrio di fondo nell’intera economia mondiale derivava dai disavanzi di bilancia dei pagamenti e dal debito estero degli Stati Uniti. Le passività in dollari eccedevano sempre di più la riserva aurea del Paese. Il 15 agosto del 1971 il nodo venne reciso con la decisione presa in gran segreto dal Presidente Nixon – sollecitato dal ministro del Tesoro John Connally, a propria volta convinto dal suo Sottosegretario Volcker – di dichiarare inconvertibile il dollaro e di svalutarlo. Fu l’eutanasia del sistema monetario di Bretton Woods, che doveva cedere ai cambi flessibili.
Il successore di Martin alla Fed, Arthur Burns, non fece molto per impedire che l’inflazione toccasse nel 1979 la punta storica del 15 per cento. In agosto il presidente Carter convinse Volcker a succedere a Burns. Volcker stroncò l’inflazione. Semplicemente, tagliò la quantità di moneta. Resistendo a proteste e pressioni politiche, lasciò che i tassi a lunga lambissero il 20 per cento. Carter perse le elezioni del novembre 1980 anche per questo. Fu un cambiamento di regime: «monetarismo pratico»! (p. 106). Nell’estate del 1982 i prezzi rallentarono e l’economia accelerò. Confermato da Reagan nel 1983, Volcker rifiutò un terzo mandato.
Insieme con la cronaca della non facile vittoria sull’inflazione il libro documenta l’impegno di Volcker alla Fed per la stabilità del sistema bancario americano, minacciata dal dissesto della Continental Illinois nel 1984, poi da quelli delle casse di risparmio. Sul piano internazionale il suo impegno fra l’altro sfociò nell’Accordo sulla capitalizzazione delle banche siglato a Basilea nel 1988 (p. 148). La competenza di Volcker, assistito da Jerry Corrigan, nella ingegneria del sistema finanziario e la sua esperienza nella regolamentazione e supervisione del settore furono alla base dell’apporto, richiestogli dalla Casa Bianca, nella risposta che si cercò di dare dopo la crisi Lehman con il Dodd-Frank Act del 2010. Si deve in particolare a Volcker – sostenuto dal vice-presidente Joe Biden – il molto discusso divieto dell’operare per proprio conto imposto agli intermediari finanziari: «Non si deve speculare con il danaro dei cittadini» (p. 217).
Gli storici si gioveranno della testimonianza offerta da Volcker sulle vicende che lo videro protagonista. Ma di cruciale importanza, oltre all’«impegno per una moneta sana», è per Volcker l’«impegno per un buon governo». Su tale fronte egli esprime la più viva preoccupazione. Il governo del suo Paese riscuote la fiducia solo di un quinto dei cittadini; si dimostra inadeguato su molteplici fronti; soprattutto, alle scelte politiche non corrisponde la capacità della pubblica amministrazione di attuarle. Anche per l’esempio ricevuto dal padre, rigoroso amministratore di un piccolo Comune, Volcker crede fermamente nel principio affermato oltre due secoli fa da Alexander Hamilton, il primo ministro del Tesoro degli Stati Uniti: «Labuonaamministrazione è la chiave del buon governo» (p. 237). A suo parere si è andata perdendo non solo l’efficienza, ma la cultura della buona amministrazione, a cominciare dalle università, più interessate a una scienza economica spesso formalistica che all’insegnamento del diritto e della pratica dell’amministrazione. Non è questione di democratici piuttosto che di repubblicani, di Trump piuttosto che della Clinton. Europa, America Latina, Africa e Asia sono pur esse in varia misura minate da sovranismi, fragilità economica, corruzione. E tutto ciò accade mentre «Cina e Russia sembrano determinate a esprimere modelli competitivi in economia e in politica» (p. 240).
Nel Pil mondiale la Cina (20%) ha soverchiato gli Stati Uniti (15%) come primo produttore. Gli Usa reagiscono con affanno, persino minacciando dazi. Gli americani vivono al di sopra delle loro risorse, ancorchè pienamente utilizzate. La produttività ha rallentato. Rispetto al Pil, il risparmio nazionale è appena il 17% (25% il mondo, 46% la Cina), il debito pubblico ha raggiunto il 106%, la posizione debitoria netta del Paese verso l’estero travalica il 50%...