Corriere della Sera, 26 maggio 2019
La beffa di Banksy a Venezia
Ancora Banksy. Il pacifico terrorista dell’arte si diverte a effettuare atti provocatori e imprevedibili, di cui poi, a distanza di qualche giorno, rivendica la paternità. Venerdì scorso il misterioso artista di Bristol, sul suo profilo Instagram, ha annunciato di essere l’autore dell’opera apparsa durante i giorni del vernissage della Biennale di Venezia. Su un muro del sestiere Dorsoduro, vicino Campo Santa Margherita, è stato dipinto, con un bianco e nero neorealista, un momento di drammatica attualità: un bambino – con ogni probabilità un migrante – tiene in mano un bengala, dal quale fuoriesce un fuoco viola, forse una richiesta d’aiuto.
Intanto, mercoledì scorso lo stesso anonimo artista inglese – sempre su Instagram – ha postato un video. Potrebbero trattarsi di uno dei tanti corti amatoriali girati dai turisti con il cellulare. Sullo sfondo, Piazza San Marco e Palazzo Ducale. E, poi: i canali, i ponti. E ancora: gondolieri, turisti, venditori ambulanti. In sottofondo, suonata da una fisarmonica, Whetever Will Be, Will Be. Fin qui, una scena cartolinesca: potrebbero essere le sequenze di To Rome with Love di Woody Allen. Poi, sul set, entra un artista di strada, con un impermeabile e un cappello. L’uomo monta una bancarella e installa una serie di nove quadri di diverso formato, accompagnata dal cartello «Venice on Oil». Come un mosaico: una sorta di reinterpretazione del vedutismo settecentesco. Vi appare qualche cosa cui i veneziani e i turisti si sono oramai abituati: una gigantesca nave da crociera che attraversa la Laguna. Una presenza aggressiva e disturbante, che altera in maniera violenta il paesaggio veneziano. Una situazione visivamente non molto diversa da quella che aveva filmato Bernardo Bertolucci in un documentario del 1967, La via del petrolio, che mostrava l’ingresso di monumentali imbarcazioni attraverso il Canale di Suez. Ascoltiamo il dialogo tra due passanti. «È veramente bello, anche più bello di quello che abbiamo visto in Biennale», dice una persona, commentando quei quadri iperfotografici. «Le navi da crociera possono andare a navigare, ma questo è un mostro», ribatte un turista. Infine, alla bancarella si avvicinano i vigili, che chiedono all’artista se sia in possesso dell’autorizzazione. Costretto a smontare il suo improvvisato negozietto, il pittore va via, mentre un’altra nave da crociera incombe alle sue spalle.
Nel post in cui Banksy ha confessato di essere l’autore di queste opere, si legge: «Sto preparando la mia bancarella alla Biennale di Venezia. Nonostante sia il più grande e prestigioso evento artistico del mondo, per qualche motivo non sono mai stato invitato».
Dietro questa beffa, tante illazioni. È Banksy l’artista ammantato che appare nella clip? Oppure, egli si è limitato a dirigere questa «fiction», nella quale sarebbero state coinvolte tre comparse (il pittore che monta il cavalletto, un videoperatore e un attore), poi fermate dalla polizia?
Al di là di queste più o meno fantasiose illazioni, le recenti uscite veneziane rivelano con forza il senso del lavoro di Banksy, che sembra oscillare tra scelta dell’anonimato, rifiuto dell’artworld e impegno politico.
Per un verso, forse memore della lezione di tanti artisti medioevali, Banksy si sottrae al culto dell’artista come brand e come griffe. Come pochi altri (Elena Ferrante), egli ha capito che, nella «civiltà dello spettacolo» (come l’ha chiamata Vargas-Llosa), meno si appare più si esiste. Nel tempo dell’«egocalisse», meglio rendersi invisibili. Introvabili. Costruire intorno a sé un alone di mistero. Nascondersi. Difendere un’ostinata clandestinità. Parlare solo con le proprie opere e con i propri gesti, disseminando tracce verosimili, per confondere coloro che provano a svelarne l’identità.
Per un altro verso, Banksy, come ha detto anche nel post di mercoledì scorso, vuole trasgredire i confini istituzionali del sistema dell’arte. Profonda la sua insofferenza nei confronti dei musei, delle gallerie, dei grandi eventi (la Biennale, la Documenta di Kassel) e di ogni tipo di mediazione (critici, direttori di musei, galleristi, dealers). Incendiario, si sottrae a ogni possibile strumentalizzazione mercantile. Sceglie, perciò, di muoversi in campo aperto, elaborando un’arte «di strada». Si porta al di là dei confini della cornice del quadro, depositando sui muri di molte città del mondo le sue drammaturgie selvagge.
Per un altro verso, infine, Banksy pensa l’arte come pratica militante, civile, impegnata. Le sue opere e le sue azioni hanno il valore di scritture corsare spesso incise in luoghi dalla forte valenza simbolica (ad esempio, in Cisgiordania). Indocili e irrequiete iconografie che hanno la funzione di richiamare la nostra attenzione su alcune emergenze sociali. Cronista e attivista, Banksy si fa inviato speciale tra i drammi dell’età contemporanea. Polemico verso i miti della globalizzazione e dell’omologazione, sorretto da slancio testimoniale, come dimostrano anche le sue incursioni su Instagram e su Twitter, ci parla di emarginazioni, di alienazioni, di apocalissi imminenti, di autodistruzioni, di povertà, di handicap. E, inoltre: riflette sui dispositivi elettronici che segnano le nostre esistenze. E, come dimostra la recente performance veneziana, si interroga anche sui devastanti effetti del turismo di massa sul destino delle città storiche. Affidandosi a immagini giocose, dense di richiami alla Pop Art, al graffitismo e ai cartoon e, insieme, perturbanti, capaci di insinuare in noi domande: ricorre a rappresentazioni pittoriche ludiche per affrontare tematiche dolorose.
È qui il programma etico, estetico e politico di Banksy, enunciato da lui stesso nel tweet fissato che ha scelto per il suo account: «La nostra generazione pensa che sia cool fregarsene. Non è così. L’impegno è cool. Prendersi cura è cool. Rimanere fedeli è cool. Provateci».