Corriere della Sera, 26 maggio 2019
Salviamo il calcio con i playoff
Oggi finisce l’ennesimo campionato più noioso di sempre. Nemmeno la Juve si diverte più a vincerlo. E, anche se domani il suo ciclo finisse, comincerebbe quello di qualcun altro. Ogni anno, a Natale, due tifosi italiani su tre sanno già che non lotteranno per lo scudetto. Con il passare delle settimane aumentano le partite inutili, mentre il numero esagerato di partecipanti abbassa ulteriormente il livello dello spettacolo. Il rischio di sbadigli e di «biscotti» fiorisce al sopraggiungere della primavera, quando a decidere l’ammissione alle Coppe o le retrocessioni in serie B non sono quasi mai gli scontri diretti, ma gli incroci contro avversari senza più stimoli. L’effetto di questo declino è sotto gli occhi di tutti, in senso letterale. Gli stadi sono diventati improvvisamente troppo grandi e sembrano colpiti dall’alopecia, con quelle chiazze di vuoto sugli spalti che in televisione mettono ancora più tristezza. Le pay-tv faticano a trattenere gli abbonati e la Lega calcio a vendere all’estero un menu insipido.
Le società più ricche si sono rese conto del problema e vorrebbero abbandonare le altre al loro destino per consacrare il fine settimana a un campionato europeo modello Nba, relegando quello nazionale nel ripostiglio attualmente occupato dalla Coppa Italia. Si realizzerebbe così anche nel calcio quell’effetto mica tanto collaterale del capitalismo moderno che ha già intaccato altri settori: la distruzione del ceto medio. Secondo gli strateghi di questo genocidio affettivo, chi è cresciuto tifando Atalanta e Genoa, Sampdoria e Cagliari, Torino Bologna Fiorentina e Lazio, ma alla lunga forse anche Napoli Milan e Roma, verrebbe indotto a sdoppiare il proprio cuore (e il portafogli) tra il vecchio amore emarginato nei bassifondi dei palinsesti televisivi e una supersquadra italiana o straniera da adottare in pompa magna durante il weekend.
Si tratta di un percorso davvero ineluttabile? È impossibile ridare smalto al torneo nazionale senza compromettere disegni più vasti? Sovranisti e globalisti non potrebbero provare a coesistere, almeno nel calcio? Quella che segue è una modesta proposta. A ispirarmela fu un giornalista americano a cui cercavo invano di spiegare che la Lazio si era aggiudicata lo scudetto dell’anno Duemila perché la Juve aveva perso l’ultima partita sotto la pioggia contro il Perugia. «E allora perché quel campionato non lo vinse il Perugia?», continuava a ripetere il mio interlocutore. Nella testa di un americano è inconcepibile che l’assegnazione di un titolo sportivo sia affidata alla casualità del calendario, anziché allo scontro finale tra le due contendenti più forti. Così cominciai a fantasticare. Provate a seguirmi con un pizzico di immaginazione.Siamo all’ultima domenica di agosto e il campionato sta per iniziare. Solo sedici società al via, come negli Anni Settanta. La «stagione regolare» dura 30 giornate e finisce entro Pasqua, quando si tirano le somme. Le prime otto classificate accedono ai playoff-scudetto, le altre ai playout-salvezza. Il tifoso di una squadra che in inverno fluttuava tra il settimo e il dodicesimo posto ha potuto sperare fino a marzo di entrare nella élite del calcio e, in teoria, di vincere il torneo. Ma qualunque sia poi stato il suo destino, ora comincia il divertimento. Scatta l’ordalia degli scontri diretti. La prima sfida l’ottava, la seconda affronta la settima e così via. Va in semifinale, e poi in finale, chi vince due partite su tre. L’andata si gioca in casa della squadra meglio piazzata nella «stagione regolare», che avrà diritto a disputare davanti al proprio pubblico anche l’eventuale «bella». Ogni partita si chiude con un vincitore: se non lo decidono i tempi regolamentari e supplementari, la scelta è affidata ai calci di rigore. Provate a pensare a un tabellone dei quarti basato sulla classifica attuale: Juve-Lazio, Inter-Milan, Atalanta-Roma e Napoli-Torino, al meglio delle tre partite da disputare in dieci giorni. E poi paragonatelo con la sbobba insapore che vi tocca sorbirvi ogni primavera. Avremmo gli stadi esauriti, gli abbonamenti televisivi alle stelle e il mercato asiatico smanioso di comprare a peso d’oro i diritti di tanto bendidio. E chi esce ai quarti non andrebbe in vacanza. Affronterebbe le altre sconfitte per accedere all’Europa League. Nel frattempo, le squadre dal nono posto in giù si incrocerebbero in sfide esiziali per la retrocessione, che colpirebbe soltanto due di esse, garantendo un minimo di ricambio. L’intera penisola sarebbe attraversata per un mese da duelli ad alto tasso emotivo, in grado di competere nella guerra mondiale dell’audience persino con il campionato inglese, l’unico a non avere bisogno dei playoff perché riesce a essere incerto e spettacolare già così.
So bene che ogni cambiamento deve superare abitudini consolidate. Che si tratti di una riunione in ufficio o di un’assemblea di condominio, provate a mettere dieci persone dentro una stanza e proporre loro una novità. La prima reazione sarà: «Non si può fare». La seconda: «Lo abbiamo sempre fatto». Il cervello umano tende a conservare l’esistente, salvo poi lamentarsene di continuo. Ciò detto, l’adozione dei playoff si presta a una raffica di critiche e di resistenze più che giustificate. Proverò a smontarle.
«I playoff sono un insulto alla sportività, perché non li vince chi ha meritato di più nell’arco dell’intera stagione, ma la squadra che va in forma in primavera».
Vero. Però farsi trovare in forma al momento della verità è esattamente ciò che contraddistingue i campioni. I Mondiali si giocano in un mese, eppure ad aggiudicarseli sono quasi sempre le Nazionali più forti. Ma quel «quasi» concede una chance all’imprevisto, che è il sale di ogni emozione.
«Poiché chi perde va fuori, aumenterebbero le polemiche arbitrali e i problemi di ordine pubblico».
Vero anche questo. Perciò il cambiamento di format andrebbe accompagnato da una riforma ancora più incisiva della moviola in campo — concedendo anche agli allenatori la possibilità di chiederne la consultazione, come avviene in altri sport — e da una drastica azione di contrasto alla componente malavitosa della tifoseria, che ha trasformato le curve degli stadi in centri di spaccio della droga.
«I playoff si sovrapporrebbero alla fase decisiva delle coppe europee, creando un intasamento mediatico e rendendo impossibile agli allenatori mettere sempre in campo la formazione migliore».
Basterebbe giocarli ad aprile, concentrando a maggio i turni decisivi delle manifestazioni continentali (o viceversa). Bisogna trovare un accordo con l’Europa, ma perché non provarci? Il virus salvifico dei playoff potrebbe contagiare spagnoli francesi tedeschi e olandesi, i cui campionati non stanno messi molto meglio del nostro.
«Chi esce ai quarti finirebbe per giocare meno partite di quelle previste dalla formula attuale, con conseguente calo degli introiti».
Falso. Affronterebbe le altre tre squadre sconfitte per contendere loro i posti che garantiscono l’Europa League. Senza contare che con questa formula, vendibile alle tv di tutto il mondo, ci sarebbero più soldi da distribuire per tutti.
«Se la tua squadra arriva a giocare la finale dei playoff e la vince, tu ci rimani secco».
Che la mia squadra possa giocare la finale, e addirittura vincerla, è una prospettiva affascinante, anche se al momento ancora piuttosto remota. Che ci rimarrei secco è invece sicuro, ma sono disposto a correre questo rischio. E come me, credo, milioni di altri tifosi. Da qualunque lato li si guardi, i playoff hanno più pregi che difetti. Sono forse l’ultima occasione che abbiamo per non ridurre il calcio a un affare per soli ricchi come il campionato europeo, o a una lagna per tutti come la Formula Uno. Vale per il pallone ciò che Indro Montanelli diceva a proposito del giornalismo: l’unico peccato mortale consiste nell’annoiare il pubblico.