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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Intervista a Giuseppe Guzzetti

Giuseppe Guzzetti ha sempre amato definirsi un avvocato di campagna. E in effetti nei primi anni da studente di Giurisprudenza, alla Cattolica, difese gli affittuari della Cascina Piatti, a Como, dove era nato, che erano stati sfrattati ingiustamente. «La Provvidenza fece sì che i contratti andarono perduti… e da debitori inadempienti, riscrissero gli accordi, e quelle famiglie non finirono in mezzo ad una strada». 85 anni lunedì, ha guidato per ventidue la Fondazione Cariplo, prima è stato presidente («Io non mi sarei mai fatto chiamare Governatore» dice) della Regione Lombardia, democristiano allievo di Albertino Marcora, della sinistra di base. Più di 30 mila progetti finanziati, 3 miliardi investiti nelle attività sociali e di welfare con la Fondazione. Ma gira e rigira è stata sempre la politica la chiave del suo impegno: «È vero, la politica è potere, ma o persegue il bene comune o non va da nessuna parte. È una grande “balla” questa dello sviluppo economico che risolve i problemi sociali, se non si risolvono prima i problemi sociali e si alimenta il clima di paura, non si andrà da nessun parte. Certo la politica è fatta di emozioni, non quelle sbagliate, però». 
Avvocato, ma davvero le Fondazioni dovranno continuare ad essere supplenti di uno Stato che fa i conti con bilanci sempre più difficili da gestire? 
«Partiamo dalle cose fatte. Le fragilità sociali, la disoccupazione giovanile, la povertà minorile sono problemi che un Paese come il nostro non può tollerare. In questi anni abbiamo cercato di contenere il disagio sociale. Una società travagliata fa fatica a risolvere i contrasti. E non è un caso che il clima d’odio, di rabbia, di isolamento, si sia esteso. Certo, l’immigrazione può diventare un’emergenza per persone che temono per il loro lavoro. Diventa un timore molto più grande perché si inserisce in una sistema di disagio. Ed è qui che bisogna intervenire. Bisogna costruire, non distruggere. Creare un’alleanza tra Stato, enti locali, Fondazioni, Terzo settore e, soprattutto, la gente. Solo se questi cinque motori lavorano insieme, le cose si possono fare». 
Da dove si parte? 
«Dal 2015 c’è un accordo tra Stato, Fondazioni, Terzo Settore per affrontare la povertà educativa. Sa che ci sono tra 1,2 e 1,8 milioni di bambini in questa condizione? In Italia. E l’Inps spende nell’assistenza 70 miliardi che potrebbero essere gestiti meglio, da Regioni ed enti locali, con più attenzione alle periferie. Per iniziative mirate. È necessaria un’alleanza pubblico-privato a livello nazionale. E serve un metodo…». 
Sta dicendo che i soldi non sarebbero un problema? Eppure con un debito al 135% del Pil gestire il welfare è complicato... 
«Le risorse sono scarse, per carità. Perciò è necessaria un’alleanza. Dobbiamo programmare, non gestire le emergenze e andare in giro con il sacchetto della spesa ad aiutare. È fondamentale anche questo, ma non basta più. I progetti devono nascere dal basso, dalle comunità che si mobilitano, non essere calati dall’alto. Certo è più difficile, faticoso, ma è l’unica strada se vogliamo cambiare davvero le cose. E i risultati arrivano. In questi anni le Fondazioni con il programma nazionale sulla povertà minorile, hanno contribuito a fare uscire dalla povertà educativa in tre anni poco meno di 500 mila ragazzi. Con un metodo da estendere ad altre priorità. Come la disoccupazione o i ragazzi che non studiano e non lavorano. Queste sono le cose da fare. A Milano, per i 21 mila bambini che non mangiano a sufficienza, con il programma QuBì – Quanto basta da 25 milioni di euro, l’intervento è stato realizzato mettendo insieme le associazioni, il Comune, i quartieri, hanno fatto una fotografia dei bisogni e ora stanno intervenendo insieme. In rete. È un lavoro enorme, ma l’innovazione sociale si fa così, altrimenti è un placebo, sono pezze che si mettono». 
Lei descrive un mondo che, a giudicare dai toni dei dibattiti, sembra lontano… 
«Ma cosa dice. È un mondo che esiste invece, se no saremmo messi molto peggio. Se gli italiani sono generosissimi quando c’è lo tsunami sanno esserlo anche per le cose che accadono nel loro quartiere. Occorre conoscere e fare partecipare anche i cittadini. Il welfare aziendale sta diventando una realtà. Luxottica e Ferrero han fatto da apripista; oggi c’è un welfare aziendale che non guarda solo ai dipendenti ma alle comunità fuori dall’azienda. E lo stanno implementando anche gli artigiani. Mio papà è morto dieci giorni prima della maturità, università Cattolica di corsa, dovevo lavorare. Ho fatto il segretario degli artigiani di Como. Sa che non facevano entrare un collega perché temevano gli copiasse le idee? Ora la Confartigianato sta realizzando un progetto di welfare comunitario. Hanno capito che se la comunità è più coesa si vive meglio. Tutti». 
Però se guardiamo a questi giorni di vigilia elettorale, la coesione non è proprio la fotografia del Paese… 
«La gente è distaccata dalla politica, le forze politiche si sono messe sul mercato del consenso. Negli anni passati la degenerazione dei partiti ha cambiamo tutto. Però i problemi veri restano. Quando studiavo alla Cattolica, il professor Vito, mi ha trasmesso un grande valore: l’economia deve essere al servizio dell’uomo. E vale anche per la politica. I corpi intermedi che di questi tempi vengono considerati residuali servono invece a rafforzare la democrazia. Gente libera, non condizionabile. Il Terzo settore è una presenza indispensabile nel sistema democratico. Non funziona il rapporto Stato-Mercato: dammi i voti che ci penso io. Non credo, come alcuni pensano, che possa tornare il fascismo di Mussolini, però bisogna sapere che il Fascismo ha iniziato proprio distruggendo i corpi intermedi, le cooperative sociali, le mutue, le cooperative di consumo e le associazioni libere. Sono un tessuto da garantire». 
Il presidente Mattarella, in occasione della giornata del risparmio ha riconosciuto un ruolo centrale alle Fondazioni? 
«Il presidente ha un’aria mite, ma ha un coraggio da leone ed è il garante intransigente dei valori della Costituzione. Lo sta dimostrando ogni volta di più. Anche con il suo intervento contro la “tassa sulla bontà”. Quando il governo ha raddoppiato il prelievo sul Terzo Settore. Ora sono tornati sui loro passi, ma il tentativo di screditare questo mondo è rimasto. Ed è un errore. Le cooperative di consumo sono state inventate per fare credito ai contadini, per comprare la pasta, il riso e l’olio, da pagare tra un raccolto e l’altro. I cattolici hanno nel dna la solidarietà. E la solidarietà è molto più diffusa di quanto si creda. Certo, se non arrivi alla fine del mese con lo stipendio, è naturale che le persone siano arrabbiate. Bisogna rispondere a questi bisogni, non con la paura. In questi anni abbiamo posto il dialogo e la relazione con gli altri al centro del nostro agire. Stabilendo priorità precise, con prospettive e programmazione. Servono cuore, competenza e determinazione». 
La paura 
Bisogna risolvere 
i problemi sociali 
per superare il clima 
di paura 
Consigliere comunale, presidente della Regione Lombardia, presidente dal ‘97 della Cariplo, dal 2000 dell’Acri. Lei ha gestito tanto potere in questi anni… 
«Abbiamo cercato di fare molte cose. Tenendo sempre presente la lezione di don Sturzo: le diversità sono una forza, non una debolezza. Il controllo democratico non è solo quello della Corte dei Conti, ma quello delle persone che possono andare sul nostro sito e vedere come vengono spesi i soldi della comunità. Questo è un tassello decisivo, se il Paese vuole ripartire, può farlo soltanto ripartendo dalle comunità. Abbassando il clima d’odio. Chiudere i porti, sostenere che il Parlamento sia un orpello fastidioso, che lo spread si mangia a colazione, ecco questi non sono segnali positivi. Invece il Paese è molte altre cose. I giovani ad esempio...». 
Che però fanno fatica a trovare lavoro… 
«Un recente studio della Cattolica fotografa i giovani come molto più impegnati di quanto appaia. Due su tre sono per l’Europa. E alla vigilia del voto mi sembra un bel segnale, nonostante tutto. La crisi dell’Europa che c’è va risolta in avanti come volevano i padri fondatori: verso gli Stati Uniti d’Europa. È un’utopia, ma il mondo ha camminato sulle utopie divenute realtà». 
Lei ha sempre votato? 
«Sempre. Anche nei referendum per i quali non andare significava non far raggiungere il quorum. La democrazia è innanzitutto votare». 
Martedì lascerà il suo incarico alla Fondazione Cariplo, per il suo successore designato Giovanni Fosti non sarà un passaggio facilissimo… 
«Il professor Fosti ha dimostrato il suo valore negli anni già passati in Fondazione, sarà un ottimo presidente e saprà costruire una squadra all’altezza. La Cariplo è un’istituzione forte, quando le istituzioni sono bene organizzate si autoconservano e mettono le persone in grado di proseguire il lavoro avviato e di migliorarlo. La Fondazione andrà in buone mani». 
Potremmo considerare la vendita della banca Cariplo l’atto che ha segnato la svolta della Fondazione? 
«Certo, fu uno snodo decisivo; la diversificazione del patrimonio e la possibilità di avviare tutte le nostre iniziative. Aumentava la concorrenza nel mondo bancario ed era necessario dare un avvenire industriale alla Cariplo Spa e un futuro alla fondazione. Perciò la vendemmo. Per dare vita a quello che poi è diventato il progetto Intesa Sanpaolo, la prima banca del Paese. E per dotare la Fondazione di un patrimonio proprio da gestire bene e non aspettare dividenti esposti alle vicende della banca». 
In questi anni ha lavorato al fianco con Bazoli, non solo per rafforzare Intesa Sanpaolo… 
«È un uomo di strategie, anticipa, vede. Intuisce. È partito che era uno sconosciuto. Una scommessa di Nino Andreatta; e dobbiamo riconoscergli che non solo ha cambiato il sistema bancario in Italia, ma improntato la sua azione ai valori del solidarismo cattolico, sfidando con coraggio la cultura liberista dominante. Guardate quello che ha realizzato».