La Stampa, 26 maggio 2019
Quel “va’ pensiero” al maxiprocesso
Spiace per il presidente di Giuria messicano, per la giurata della Burkina Faso o per quello polacco, che non avranno colto, ma nel Traditore, il film di Marco Bellocchio su Tommaso Buscetta, c’è un dettaglio splendido, crudele e infinitamente toccante che solo un italiano può cogliere, perché dice molto, anzi tutto, su quello che fummo, siamo e presumibilmente saremo. E’ la sequenza della sentenza del primo maxiprocesso alla mafia, il trionfo di Giovanni Falcone. L’immagine è quella dell’aula bunker di Palermo, su cui scorre in sovrimpressione l’elenco interminabile dei condannati e delle pene. In nome del popolo italiano, finalmente, giustizia è fatta. E qui, a tradimento, spiazzandoci con la forza devastante e rivelatrice delle associazioni di idee giuste, parte il Va pensiero.
Non è solo, come ha notato qualche recensore, che le sequenze del tribunale sono girate come scene di teatro, anzi d’opera, dietro il coro dei mafiosi che urlano nelle loro gabbie e davanti alla Corte e a noi i solisti, Buscetta e Pippo Calò, nel loro drammatico duetto, pardon confronto. L’idea è più sottile. E lega il Risorgimento alla lotta alla mafia, l’Italia migliore di ieri e di oggi, quelle minoranze illuminate (sì, diciamola la parolaccia: quelle élite) che l’Italia si batterono per farla e si battono, ogni giorno, perché non si disfi. Verdi e Falcone egualmente padri di una Patria che non li merita.Poi si può discutere, e molto, su quel coro, che in realtà non è un canto di vittoria, ma di nostalgia. E sul suo significato patriottico, in realtà un’invenzione del senno di poi, una ricostruzione mitica e pedagogica, per fare gli italiani a Italia fatta. Per il Verdi ventinovenne di Nabucco gli Ebrei che nella cattività babilonese piangono la Patria perduta erano gli Ebrei dell’antichità, e basta. Che la melodia del dolore sia diventata quella del riscatto è un mistero della musica. Forse c’entra il fatto che le sue parole risalgono alla radici profonde della nostra civiltà. Sono la parafrasi di un salmo, uno dei più belli della Bibbia, Super flumina Babylonis, già musicato da Palestrina, che diventa il Va pensiero e torna nel 1945 in Alle fronde dei salici di Quasimodo, in un altro momento tragico della nostra storia: «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore», eccetera.
Non importa neanche se Bellocchio queste cose le sappia, le abbia calcolate, o abbia semplicemente deciso con l’intuito dell’artista che per commentare quel momento solenne di giustizia e di speranza del 1983 l’unica musica possibile fosse questa, l’Inno che ci portiamo dietro e dentro da quando Verdi, come diceva D’Annunzio, «pianse e amò per tutti». Resta la straordinaria commozione di quella sequenza, la forza dell’idea che finché ci saranno degli uomini disposti a vivere e a morire perché il popolo italiano abbia giustizia, questa Patria sì bella non sarà anche perduta.