La Stampa, 26 maggio 2019
Il traffico e i morti sull’Everest
«È da non credere. Anzi,no, purtroppo non solo ci credo, ma l’ho visto e su quella montagna splendida non ho proprio più voglia di andare». Silvio «Gnaro» Mondinelli, sugli Ottomila è salito 21 volte. Fa la guida anche là, in Himalaya, dove ci sono le montagne più alte della Terra e parla con amarezza dell’Everest. Aggiunge in un sospiro: «Dieci morti» . Questo dice la cronaca degli ultimi giorni su quanto accade sul versante Sud della montagna più alta del pianeta. Un «tetto del mondo» preso d’assalto, dove si muore «in coda», stremati dalla fatica, dalla quota, dal freddo. In attesa di fare gli ultimi passi su quella cresta che dal 1953 ha alcuni metri di difficoltà tecnica battezzati «Hillary step», in nome del primo salitore, sir Edmund, neozelandese.
Su quella cresta sono morti in dieci, nel tentativo di tornare indietro o di andare avanti. Un’attesa assurda: 350 persone, gonfie per le tute di piumino, con il viso coperto da maschere d’ossigeno, con la bomboletta da mezzo chilo che gli scende sul petto. Tutte lì, una appiccicata all’altra, con i muscoli in tensione, che tremano. Fermi, attaccati con gli «jumar» (morsetti) a una corda. C’è anche qualche alpinista professionista, come David Göttler, che ha rinunciato proprio per quell’attesa infinita. Era quasi a 8.700 metri, a 148 dalla vetta. Amico e compagno di scalate della guida del Cervino, Hervé Barmasse, che di fronte a quel «formicaio» sull’Everest, dice: «Per ogni persona si calcolano circa 8-10 kg di immondizia per sempre abbandonata sulla montagna. Nonostante gli sforzi per ripulirla, la realtà ci propone una sola verità. L’alpinista insegue il proprio ego ed è disposto a sacrificare la montagna per un fatuo successo». E Mondinelli aggiunge: «Troppa gente. Ha ragione Hervé, ghiacciai e montagne sono ridotti a un immondezzaio. Bisognerebbe avere regole, insomma qualcosa che possa preservare queste meraviglie. Ma c’è di mezzo il business, soldi per una popolazione che è povera». Quello che è successo negli ultimi giorni dipende anche dal poco tempo a disposizione di cielo sereno. «La vetta da afferrare», dice ancora Mondinelli. Aggiunge: «Vaglielo a spiegare a uno che spende tra i 50 e i 60 mila dollari che bisogna tornare indietro quando il cielo è sereno e l’unico impedimento sono le persone davanti a lui».
E volano gli elicotteri di soccorso, anche quello dell’italiano Maurizio Folini che di persone in difficoltà ne ha trasportate quindici prima di tornare a Kathmandu. Ma non ci sono soltanto i voli di soccorso. «Proprio no - racconta Mondinelli -. L’autunno scorso ho trovato mille persone al campo base e sopra la mia testa ho contato 27 elicotteri. Ronzavano sui ghiacciai, sull’Ice fall, con turisti a bordo. La guerra le dico, «Apocalypse Now», una follia. In primavera nell’altiporto di Lukla c’erano tredici elicotteri».
L’altiporto è all’imbocco della valle del Khumbu, quella che porta all’Everest in Nepal. È fra le più frequentate. Quest’estate ci sono stati morti e feriti perché un aereo bimotore in decollo è uscito dalla pista è ha investito due elicotteri appena atterrati. Mondinelli dice che «bisognerebbe limitare l’Everest, concedere i visti soltanto a chi è già salito su altri tre Ottomila». Scrive Agostino Da Polenza su Montagnatv: «Le agenzie nepalesi incassano milioni di dollari, come il governo del Tetto del Mondo che produce regole marginali e inutili per far finta di arginare un fenomeno che non ha intenzione di limitare. Intanto, la terra e i ghiacciai si riempiono di immondizia, di black carbon, mille chili al giorno». L’ex himalaista di Bergamo, fra i «padri» della Piramide del Cnr nella valle dell’Everest, aggiunge: «Migliaia di piazze hanno accolto i giovani che sull’onda della voglia di natura, ambiente e futuro sostenibile stanno gridando la loro rabbia. Forse un giorno anche a Kathmandu i giovani nepalesi si accorgeranno che hanno trasformato la “Dea Madre delle Montagne” in una fogna e in un centro commerciale delle ambizioni umane».