Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2019
Il robot che compra e vende il 53% delle azioni
Compravendite automatizzate. Software che decidono se e quando operare, inviando loro stessi gli ordini. È il trading algoritmico. Un fenomeno rilevante in Borsa. Secondo Aite Group nel 2018 i robot hanno gestito circa il 53% degli scambi delle azioni globali cash. Una percentuale che negli Usa sale al 66%. Più contenuta, seppure sempre importante, la penetrazione dell’algoritmo in Europa (in media il 47%). In particolare in Italia, a detta degli esperti, più di un terzo degli scambi azionari è gestito da software. «Il robot investitore – spiega Anna Kunkl, partner di Be Consulting – vale almeno il 30% degli scambi». «La stima è finanche superiore» aggiunge Tullio Grilli, capo del brokerage elettronico di Banca Akros. «Il peso dell’algoritmo sul listino italiano – fa da eco Enrico Malverti, presidente di Fintech4i -, seppure inferiore a quello in Europa, è maggiore del 30%».
Insomma: i dati (in Asia l’incidenza è del 40%), nonostante possano variare a seconda di come viene definito l’algo trader, dicono che il software è “Re” di Borsa. E non solo nelle azioni. A livello mondiale, sempre secondo Aite Group, le compravendite automatizzate pesano per il 50% sui future (10 anni fa valevano meno del 40%) e il 42% nelle opzioni. Il mondo delle valute si “accontenta” di un 30% (praticamente inesistente il fenomeno nel 2009). Più staccato, «anche se in rapida ascesa – dice Grilli -, soprattutto nel nostro mercato», il reddito fisso. Qui le compravendite in mano ai robot sono circa il 10% del totale dei volumi.
I software crescono
Al di là dei numeri specifici l’algo trading è previsto in espansione. Greenwich associates, in un recente sondaggio, ha rilevato che gli operatori di Borsa scommettono sull’incremento dell’uso dei software. Una dinamica dovuta ad un cocktail di cause: dalla ricerca di liquidità (30% degli intervistati) alla necessità di maggiore efficienza fino alla volontà di meglio sfruttare gli andamenti dei prezzi. Si tratta, a ben vedere, di motivazioni legate da un minimo comune denominatore: la crescente complessità delle Borse. Listini che difficilmente possono essere affrontati dal solo operatore essere-umano.
Un esempio? Arriva dal passato con la Mifid1. Nel 2007, quando l’Europa ha abbracciato il modello anglo-americano e ha messo le tradizionali Borse in competizione con piattaforme elettroniche alternative di scambio, gli intermediari hanno dovuto garantire all’investitore la migliore esecuzione. Cioè: realizzare l’operazione sul mercato che offre le condizioni più favorevoli. Una scelta da effettuarsi all’istante che, proprio perché le sedi d’esecuzione sono diventate molteplici, ha messo in disparte l’uomo a favore del computer.
Ma non è solo la complessità dei mercati. C’è poi, da un lato, la velocità dei flussi di notizie che influenzano le quotazioni. E, dall’altro, il fenomeno dei big data. Rispetto al primo fronte la Bis sottolinea che nei mercati valutari alcune piattaforme, proprio per adeguarsi all’alta velocità delle “news”, hanno ridotto l’intervallo d’aggiornamento del prezzo a 5 millisecondi. Riguardo, invece, al secondo tema può ricordarsi che diverse società, come le statunitensi iSentium o Accern, scandagliano i social network (tra gli altri Twitter) per individuare “sentiment” di Borsa. Insomma: è sempre la voglia, o necessità, di appoggiarsi a soluzioni tecnologiche. Compresa l’intelligenza artificiale che, secondo Statista, ha proprio nel settore dell’algo trading la sua terza fonte di guadagno (oltre 5 miliardi di dollari al 2025).
Il mito dell’Homo eoconomicus
«Al di là di ciò – aggiunge Malverti -, il robot investitore trova la sua generale giustificazione nel superamento della finzione dell’Homo oeconomicus». Vale a dire? «È dimostrato che spesso gli investitori, nel momento di comprare o vendere, non riescono a massimizzare i benefici o minimizzare le perdite. Non sono così efficienti». L’algoritmo, invece, permette (o dovrebbe permettere) «di eliminare l’irrazionalità dell’essere umano». In un simile habitat non è difficile capire perché, di nuovo, ci sia la spinta al robot investitore.
Tutto rose e fiori, quindi? La realtà è più complicata. Il mondo delle compravendite automatizzate è articolato: si va dagli algoritmi che investono lentamente (ad esempio una volta al mese) fino a chi (High frequency trader, Hft) compiono migliaia di operazioni in un millisecondo. Proprio quest’ultimi sono spesso centro di aspre polemiche. Per alcuni la loro operatività è benefica. Ad esempio: gli Hft immettono nel sistema una liquidità essenziale al funzionamento delle Borse. Sennonché gli inciampi a loro riconducibili non sono pochi. Nessuno dimentica il flash crash del 6 maggio 2010 quando, in pochi minuti, il Dow Jones perse oltre mille punti per recuperarne 700 subito dopo. Una tipologia d’incidente che, seppure in maniera meno evidente, è proseguita. Basta ricordare il tonfo “istantaneo”del franco svizzero l’11 febbraio scorso, sui mercati asiatici, dovuto a dei software cui non era stato “segnalato” che in quel giorno i listini giapponesi erano chiusi per festività.
La manipolazione delle Borse
Ma non è solo il “crash” più, o meno, fortuito. C’è anche la manipolazione del mercato. Non di rado gli Hft sfruttano la loro velocità per immettere sul listino flussi di proposte di negoziazione fittizie. Così è, ad esempio, il “pinging”. Cioè: il flash trader “mitraglia” con migliaia di offerte (in acquisto o in vendita) il titolo che gli interessa, ritirandole prima che siano eseguite. In questo modo gli altri trader reagiscono e svelano le loro strategie d’investimento.
A ben vedere sia le Borse che i regolatori hanno reagito a simili fenomeni. La direttiva Ue Market Abuse ha codificato, e previsto sanzioni, proprio rispetto ai comportamenti dei flash boys. Riguardo, invece, all’automatic trading la più recente Mifid2 ha introdotto diversi obblighi. Tra gli altri: chi fa uso di robot, oltre a segnalarlo all’authority, deve dimostrare di fare il possibile per limitare il rischio. Poi: è tenuto a descrivere, annualmente, la sua attività. «Sono previsioni importanti – dice Kunkl-. La normativa richiede competenze, risorse umane ed economiche non indifferenti. Solo chi ha le spalle large potrà soddisfarle». Insomma: i controllori tentano la stretta mentre i software, più che guardare ai bilanci, ascoltano i “cinguettii” in Internet.