ItaliaOggi, 25 maggio 2019
Lettera minatoria di Maometto
La mandò nel 628 a molti capi di Stato per indurli a convertirsi, minacciandoli con la spada
Il grado di minaccia rappresentato dall’Islam verso l’Occidente è oggigiorno molto dibattuto. Una parte, forse culturalmente dominante, ritiene che la religione musulmana sia sostanzialmente una fede pacifica e che non si debbano trarre conclusioni affrettate dalle gesta sconsiderate di una minoranza di radicali, detti anche islamisti, che compiono ogni tanto una strage. L’altra parte fa degli elench (il giornale tedesco Die Welt ha recentemente pubblicato una lista di circa 31 mila attentati terroristici di matrice islamica a partire dall’attacco alle Torri Gemelli del 2001, con oltre 146 mila vittime) e si chiede se non sia in corso qualcosa in più di un antipatico misunderstanding etnico.Potrebbe allora essere interessante capire che cosa pensasse di star facendo Maometto, il fondatore della fede, quando incoraggiò i suoi discepoli a condurre il proselitismo della spada per portare il resto del mondo da lui conosciuto sulla retta via. Secondo la storiografia islamica nell’anno 628, per chiarire il suo pensiero, il Profeta inviò una curiosa lettera circolare a numerosi dei «capi di stato» di allora, invitandoli ad abbracciare subito la nuova fede da lui proposta e suggerendo conseguenze spiacevoli nel caso esitassero.
I destinatari comprendevano il titolare dell’Impero Romano d’Oriente, Eraclio II di Bisanzio; dell’Impero della Persia, Cosroe II; Najashi, il Negus di Abissinia; Al-Muqawqis, il regnante d’Egitto; i Principi dell’Oman; Hauda bin Ali, il Governatore di Al-Yemama; Harith al-Ghassan, il Governatore di Damasco; Munzir ibn Sawa, il Principe di Bahrain; e Badhan, il Principe dello Yemen. La lettera intimidatoria, somigliante a quelle utilizzate ancora oggi dalle cosche mafiose, era quasi la stessa per tutti i destinatari. Variava perlopiù nella pesantezza della minaccia profferta, che dipendeva essenzialmente dalla distanza geografica che separava i destinatari dalla Mecca.
Così, mentre a Cosroe si proponeva di «abbracciare l’Islam cosicché tu possa essere al sicuro in questa vita e nella prossima», nel testo indirizzato a Eraclio, nella lontana capitale bizantina, si leggeva il più mite invito ad «accettare Allah e sarai salvo», non dimenticando (secondo qualcuna delle traduzioni) di pagare regolarmente il jizia, il tributo.
È difficile oggi percepire quanto poco sembrassero contare all’epoca gli straccioni disorganizzati delle misere tribù sparse per il deserto dell’Arabia. Che fosse sorto tra questi l’ennesimo profeta non fece minimamente impressione nelle corti che contavano. Cosroe di Persia stracciò la corrispondenza e rispose che avrebbe visto volentieri il mittente in catene, ma che al momento aveva cose più serie da fare.
Eraclio, più cautamente (forse pensando di usare gli arabi un giorno contro l’eterno nemico persico) replicò con dei regali di poco conto e senza commentare la proposta di rinnegare la fede cristiana.
Secondo le cronache, Maometto restò molto deluso dalle riposte avute. I «saraceni» (così li chiamarono in Occidente) cinque anni dopo uscirono brulicanti dal deserto arabico. Conquistarono l’Impero persiano tra il 633 e il 644. L’Impero Bizantino invece resistette, in forma tronca, per altri ottocento anni, fino a quando gli Ottomani guidati dal sultano Mehmet II presero la città ormai nota come Costantinopoli, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente. Si arrese il martedì 29 maggio del 1453.