Avvenire, 25 maggio 2019
Intervista a Emanuele Severino
Emanuele Severino, un gigante del pensiero. Inarrestabile, ineffabile, inesauribile. 90 anni e un monumento, come la summa, il sistema che nacque da una folgorazione, a 23 anni. E che non ha mai mai abbandonato, né ha sgretolato il tempo, il dubbio, le incrinature esistenziali.
Lei è riconosciuto come tra i più grandi filosofi viventi, la imbarazza?
«No, perché non lo credo. Insomma, qualche volta dicono frasi di questo genere. Lascio la responsabilità a chi le pronuncia».
L’ho detto apposta come provocazione, però è vero che sono decine le sue opere, e tradotte in molte lingue, l’ultima Testimoniando il destino, pubblicata da Adelphi. Il destino non è Dio, potrei dire riassumendo e banalizzando il percorso che l’ha portata da giovane dalla fede cattolica a tutta un’altra struttura del pensiero. Qual è il destino?
«Forse è meglio dire che cos’è il destino. Restiamo all’etimo della parola. Ciò che sta. Intendendo quel de non come un moto da luogo ma come un intensificativo. Il latino dice deamare, che non vuol dire amare provenendo da, ma amare molto molto. Anche un’altra parola, devincere, vuol dire vincere definitivamente e radicalmente. Uso la parola destino per indicare questo ’stare’ che non si lascia scuotere da alcun’altra forza. Ora la questione più importante dal punto di vista della comunicazione culturale è come mai oggi che la cultura, non solo filosofica ma anche scientifica, respinge l’idea di un sapere stabile, come mai qualcuno ripropone “l’assolutamente stante”? L’eliminazione di ogni sapere definitivo proviene dal modo in cui la filosofia greca ha mosso i primi passi. Il destino, il divenire, mette in questione quei primi passi. Si comprende allora perché si torni a cercare l’assolutamente stabile».
In tempi in cui la filosofia si è parcellizzata in tante altre scienze, la sociologia, la psicologia, la politologia, lei è uno dei pochi rari pensatori che non sia asistematico, ha mostrato e dimostrato un sistema perfetto.
«Se fossi stato io, non varrebbe niente. È che il sistema stesso si è mostrato. Noi siamo l’apparire del destino. Amo spesso citare questa frase: “noi siamo dei re che credono di essere dei mendicanti”. Ecco, la regalità dell’uomo consiste nell’“essere l’apparire della verità assoluta»».
Se Dio non c’è, la Verità e quindi la vita dell’uomo, del mondo, sono condannate al relativismo.
«Ecco, in questa frase contesto la premessa “se Dio non c’è” perché sottintende che da parte mia si affermi che Dio non c’è. Invece no».
Molti lo sottintendono riflettendo sulle sue opere.
«Gli amici di Dio e i nemici di Dio hanno un’anima comune. Quest’anima comune è la convinzione che le cose escano dal nulla e ritornino nel nulla. Il destino mette in questione proprio quest’anima comune degli amici e dei nemici di Dio. Il destino non ha nulla a che fare, ripeto, con l’amicizia con il divino né con l’inimicizia proprio perché sono due protagonisti che combattono sullo stesso ring. Il destino guarda il ring e lo condanna e condanna i contendenti che stanno su di esso».
Che cosa le piace di più dell’uomo? Questa capacità di ragione, il pensiero, l’erranza del Leopardi che lei ama?
«C’è sempre di mezzo quella faccenda del re e del medicante… Io mi servo anche di una frase di Goethe, che nel Faust dice: “Due anime abitano nel mio petto. Una è l’apparire del destino, l’altra è il mendicante”. Anche lei è l’apparire del destino come ogni altro. Allora quando mi chiede che cosa mi piace dell’uomo, le ho risposto già prima che l’uomo è quella regalità, l’apparire della verità, l’eterno apparire della verità del tutto, non di una parte della realtà».
Ricordo che lei fu esonerato dall’insegnamento all’Università Cattolica, ma non si è mai sentito né proclamato vittima del potere ecclesiastico. Perché?
«Perché sono il primo io a riconoscere che in una università cattolica i professori devono sottostare a una prospettiva per la quale l’università è cattolica, e quando ho incominciato a maturare il mio modo di pensare, ho capito subito che avrei dovuto lasciare quell’università».
Lei non ha mai nostalgia di esser stato scelto, amato, di essere creatura, della formazione cattolica che ha ricevuto?
«Se lei usa la parola nostalgia la risposta è no. Come posso avere nostalgia per l’errore? Senza l’errore però non ci sarebbe la verità, quindi l’errore non è una cosa da buttare nell’immondizia, dimenticandosene. Anche dal punto di vista cristiano: Cristo che siede alla destra del Padre può essersi dimenticato del proprio sacrificio? Io penso, se lei è cattolica, che mi risponda di no. E il sacrificio in cosa è consistito? Secondo Paolo nell’addossarsi, lui che era l’Innocente, i peccati degli uomini. I peccati degli uomini però non sono un sacco che ci si mette sulle spalle. Allora vuol dire che ne ha fatto esperienza. È diventato il massimo peccatore, ha sperimentato la totalità dei dolori e dei piaceri. Se noi dimentichiamo l’errore non abbiamo la verità».
È possibile che il suo pensiero sia un errore?
«No. Togliamo via suo. È possibile che il contenuto al quale i miei scritti si riferiscono sia un errore? No! È possibile che i miei scritti non siano in grado di esprimere quel contenuto ade- guatamente? Sì!».
A cosa siamo destinati? In che direzione stiamo andando?
«È un tempo molto interessante».
Non è un tempo povero, confuso?
«No, perché i fenomeni, anche di incretinimento delle masse, hanno una motivazione. Stiamo abbandonando i valori della tradizione. Ma non stiamo ancora fruendo delle possibilità che ci vengono offerte dal futuro inevitabile in cui la tecnica dominerà. Siamo in questo tempo intermedio, uso la metafora di quei trapezisti che, essendo inizialmente attaccati al trapezio, lo lasciano per afferrarsi all’altro, che ci sia sotto o no una rete, ma nel frattempo sono sospesi. Noi siamo in questo momento di sospensione che è carico di significato. Il trapezista sospeso ha alle spalle questa ricchezza della tradizione, in cui ha gran parte il Cristianesimo, e ha davanti ciò che la tecnica può fare; la tecnica è il modo più rigoroso in cui può manifestarsi la negazione del destino: però bisogna passare attraverso questa negazione prima che i popoli parlino la lingua del destino».
Certo. La tecnica trasforma, opera, cambia, produce, o almeno così appare, secondo il suo ragionamento.
«La tecnica serve oggi alle forze come il capitalismo, che è il maggior gestore della tecnica; ieri serviva al comunismo e oggi al comunismo cinese».
Al potere.
«Alle varie forme specifiche di potere. Quindi capitalismo, democrazia, comunismo, comunismo cinese, ma anche cristianesimo, perché anche il cristianesimo usa i servizi della tecnica per propagare la buona novella. L’islam, i nazionalismi. In questo servizio che offre la tecnica, queste forze sono in conflitto fra di loro. E come prevalgono? Prevalgono potenziando lo strumento tecnoscientifico: ma se le altre forze non vogliono essere eliminate devono a loro volta potenziare lo strumento tecnoscientifico sicché, a un certo momento, lo scopo unico di queste forze è il potenziamento dello strumento. Ma già il vecchio Aristotele diceva che “un’azione è quel che è, solo in relazione allo scopo che ha”. Quindi un capitalismo che domani potenziasse il proprio strumento tecnico prevalendo su tutte le altre forze concorrenti, nell’atto in cui vincesse non sarebbe più esso a vincere, bensì lo strumento tecnoscientifico: il suo potenziamento sarebbe stato sollevato dal rango di scopo supremo del capitalismo a unico dominante vincitore».