Corriere della Sera, 25 maggio 2019
Giorgio Armani in Giappone
Giorgio Armani e il Giappone, una faccenda di attrazione finale. Per istinto, all’inizio. E poi, come spesso capita quando ci si conosce, per similitudini e affinità. Linearità, purezza, essenza appartengono all’uno e all’altro. E non ci si stupisca se lo stilista, qui a Tokyo, alla riapertura della sua boutique-torre in Ginza con sfilata per l’occasione, si lascia andare in complimenti degni di un grande amore: «Lo amo per la sua estetica della semplicità. È magico lavorare qui e anche le donne hanno un’eleganza, nei gesti e nel portamento, unica. Un’allure veramente straordinaria». Sino addirittura a sostenere: «I giapponesi sono più Armani di Armani».
Affetto più che ricambiato se poi per strada persino i ragazzini in divisa scolastica (rigorosamente gonnella o pantaloni grigi, cambia bianca e cravattino) lo riconoscono e lo fermano. «Mi sono commosso più di una volta. Emozioni che non provavo da tempo: da quei giovani studenti alla signora che mi ha abbracciato ed è scoppiata a piangere». E alla show, la sera, organizzato al National Museum, il più grande e antico museo del Giappone, è un incredibile omaggio reciproco. Da una parte un popolo la cui è estetica è quanto di più essenziale e sofisticato e atemporale ci possa essere, dall’altra la moda di Armani portatrice degli identici messaggi. E il tutto accade come sopra: per caso, per istinto. «Non l’ho disegnata pensando al Giappone, però quando sono arrivato qui ho scoperto che questa collezione era l’emblema della donna giapponese che ho in testa! Non poteva essere così. Un Armani che rivede Armani con una ricerca più libera ed emotivamente più chiara». Poi ci sono i ricordi come la prima volta, nel 1982, per un premio: «Non capivo perché fossi lì tra i grandi. C’era Karl Lagerfeld che insieme a mister Fairchild mi fecero da mentori. Mi insegnarono a usare le bacchette. Ero timidissimo».
Il passato e il presente in Giappone convivono con grande raffinatezza, sostiene lo stilista. Come non cogliere il parallelo con il suo lavoro? Mai come in questo show che è storia e futuro: «Qualcosa di diverso ma non troppo, mai retrò e mai assurdo. Forse è questo il segreto del mio successo: sfiorare la provocazione e fare subito marcia indietro per riequilibrare l’estetica». Gli eccessi armaniani? Accostamenti inusuali, forme liberatorie: una scarpa che stona, un luccichio improvviso, un tessuto inaspettato, una collana di troppo, uno stivaletto-calzino, le bretelle da monello, un cappello fez bizzarro, il denim usato come fosse shantung di seta.
Ben 134 uscite, una trentina dedicate all’uomo – assaggio della collezione di giugno – con un occhio più che attento al mercato: «È una cruise collection, destinata alla vendita, quella vera. Cioè l’80 per cento degli ordini. Detesto chi in questi show fa cose eccezionale. Questa è una collezione che rientra domani e abbiamo già i compratori alle porte». E non solo gli riesce assai bene il compromesso con il mercato, ma sembra soddisfarlo più del solito: «Perché non c’era la malefica realtà degli show delle fashion week che obbligano i creativi ad essere stravaganti per fare contente le signora della moda. Questo gioco, lo sapete, a me non piace: considero il mio lavoro troppo seriamente».
Lo show è un susseguirsi di assaggi armaniani: tailleur per lei e per lui liquidi, che accarezzano i corpi quasi fossero maglie e spolverini e piccoli cappotti e bluse e giubbotti e caban. Cotoni jacquard e sede fluidi. Pelle come tessuto, per i blazer maschili (insuperabili) e per i profili di certe piccole giacche femminili. E il filo conduttore è sempre quello, fra guardaroba opposti dove lei «pesca» il doppiopetto di lui e lui un filo di kajial da lei.
Nei colori entra un nuovo «armaniano» destinato a fare storia: una tinta caffè («sarà il mio nuovo grigio») che apre e percorre lo show, alternandosi a bianchi vissuti, neri, azzurri e rossi. Nulla è mai oltre, fedele al messaggio rivolto alle donne, da Oriente a Occidente: «Guardatevi sempre allo specchio, perché quello che vedete in passerella spesso va bene solo per i club. Dovete conoscere i vostri limiti per non arrivare al brutto. Lo scopo dello stilista è aiutare la donna a migliorarsi».