Corriere della Sera, 25 maggio 2019
Una legge del 1917 per incastrare Assange
Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lancia la sua offensiva finale contro Julian Assange facendo ricorso all’Espionage Act, una legge adottata nel 1917 quando alla Casa Bianca c’era il democratico, riformista e successivamente anche Premio Nobel Woodrow Wilson. Circa duemila americani furono accusati di aver messo in pericolo la Patria semplicemente con i loro discorsi o scritti pubblici. Il più noto di loro, il socialista Eugene Debs, fu condannato a dieci anni di carcere. È uno dei passaggi più controversi della storia americana che ora torna di attualità, in modo inaspettato, con il caso Assange. Finora le Procure americane avevano accusato il fondatore di Wikileaks di «cospirazione» con l’ex analista dell’esercito Chelsea Manning, che sottrasse dai computer una grande massa di notizie riservate. Assange, 47 anni, pubblicò tutto e l’opinione pubblica mondiale fu informata sui retroscena spesso scandalosi delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Ora John Demers, alto grado del ministero della Giustizia, spiega che al vecchio capo di accusa se ne aggiungono altri 17. Se provata ogni imputazione sarebbe punita con 10 anni di carcere. Tra le motivazioni prodotte da Demers, spicca questa frase: «Julian Assange non è un giornalista. Nessuna persona responsabile, un giornalista o altro, metterebbe di proposito a rischio i nomi delle fonti che operano nelle zone di guerra, mettendole in grave pericolo». È un’osservazione giusta, per altro condivisa da molti med ia americani. Ma è un’obiezione che chiama in causa le regole deontologiche del giornalismo, non il diritto di pubblicare le notizie. Quel diritto è garantito negli Stati Uniti dal Primo Emendamento alla Costituzione che dal 1791 consente alla stampa, e oggi a siti e tv, di divulgare anche le «informazioni riservate» del governo.