Corriere della Sera, 25 maggio 2019
Intervista a Franco Iseppi, presidente del Touring club
Per quasi un quarto di secolo ha fatto conoscere il mondo all’Italia: in Rai è stato il produttore prediletto di Enzo Biagi, da «Linea diretta» a «Il caso», fino ai reportage sull’Est europeo e sulla Cina. Eppure Franco Iseppi, che dell’ente radiotelevisivo di Stato fu anche direttore generale nel periodo dei «professori», non è mai diventato giornalista. «Enzo diceva che per fare il suo mestiere sarebbe bastato superare questo concorso: “Il candidato scriva le parole equo, iniquo, innocuo”. Quand’ero ricercatore, mi esaminarono Piero Bassetti, Umberto Agnelli e Fabio Luca Cavazza. E conclusero: “Si presenti a Italo Pietra, direttore del Giorno”. Ma il tesserino non m’interessava».
Adesso, a 80 anni compiuti (l’altrieri) e da presidente del Touring club italiano, Iseppi si è dato la missione opposta: far conoscere il Belpaese al mondo. «Non mi rassegno al fatto che siamo la meta più amata dagli stranieri, davanti a Francia, quarto posto, e Spagna, sesto, ma poi il World economic forum ci pone all’ottavo su 136 negli arrivi, preceduti da Spagna, primo posto, e Francia, secondo».
Riavvolga il nastro a partire dalla Rai.
«Ci entrai nel 1970. Concorso per produttori e sceneggiatori, un centinaio di concorrenti. All’orale, Paolo Grassi mi pose una domanda sul teatro africano. Iniziai a parlare di Aimé Césaire. M’interruppe: “Qui siamo gli unici due che capiamo che cosa sta dicendo. Se tutti i cattolici fossero come lei, noi socialisti potremmo andare a spasso. Assunto”».
Chi è un produttore televisivo?
«Un ibrido: responsabile editoriale, autore, segretario di redazione. In pratica ero il tramite fra la Rai e Biagi».
Il vostro sodalizio come nacque?
«Per caso. Raffaele Crovi e Gianfranco Bettetini non trovavano il coraggio di dire a Enzo che un suo servizio televisivo zoppicava e andava tagliato. Mi offrii di farlo io. Mi chiese: “Tu che ne pensi?”. Hanno ragione, risposi. E Biagi: “Visto che sei bravo, da oggi lavori con me”».
Insieme avete viaggiato molto.
«Spesso erano spostamenti, qualcosa di diverso dai viaggi. Una volta andammo in aereo a New York e c’infilammo in un cinema, solo perché Enzo doveva recensire L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, non ancora distribuito in Italia. Finita la visione del film, tornammo subito a Milano».
Un po’ spiega il dissesto della Rai...
«Eravamo parsimoniosi. Un giorno fummo alle 11 in tribunale a Napoli, dove Biagi incontrò Raffaele Cutolo, e alle 17 dal premier Margaret Thatcher, al numero 10 di Downing Street. Al termine, la segretaria della Lady di Ferro mi ricordò che il conto di trucco e parrucco spettava alla Rai. In compenso l’intervista fu trasmessa persino dalla Bbc. Vuole altri due esempi dei nostri “non viaggi”?».
La sto ascoltando strabiliato.
«Mattina dal generale Wojciech Jaruzelski a Varsavia. Nel pomeriggio, Francoforte-Manila per un’intervista con la neopresidente delle Filippine, Corazón Aquino. Indi partenza per le Hawaii, dove ci attendeva l’ex dittatore Ferdinand Marcos. Sbarcammo a Honolulu con il cappotto e prendemmo un gelato. Più che alle sue 500 paia di scarpe, la moglie Imelda era interessata ai cioccolatini Perugina che Enzo le portò. Oppure: puntatina a San Paolo del Brasile alle 10; colloquio con Umberto Ortolani su loggia P2 e caso Calvi alle 15; volo per l’Italia alle 20. Di quella trasferta ricordo solo la svalutazione del cruzeiro: meno 20 per cento dall’ora di arrivo all’ora di partenza».
Ma di viaggi veri Biagi ne fece mai?
«Certo, in quattro continenti, Australia esclusa: non amava i canguri. Per “Made in England”: era molto legato all’Inghilterra perché nel 1953 aveva seguito da cronista l’incoronazione della regina Elisabetta. Per “Douce France”: a pranzo con Federico Fellini gli sentii dire che se la loro generazione non era stupida lo doveva alla cultura francese. Per “La lunga marcia”: sette anni di preparativi, girammo la Cina in lungo e in largo».
E lei mangiava cane arrosto.
«La leggenda è infondata: mi schifava al solo vederlo. Gli otto mesi trascorsi nella provincia cinese mi avevano costretto a precauzioni igieniche d’ogni tipo. In hotel mi portavo le lenzuola di carta o dormivo nel sacco a pelo».
Biagi si concedeva svaghi nei viaggi?
«Ne avevamo concordati quattro. Due solo suoi, circo e musical, e due comuni, mostre e ristoranti. Preferivamo i locali italiani, che spesso non ci facevano pagare il conto. A Le Cirque di Sirio Maccioni a New York si andava per i pettegolezzi. Al San Lorenzo a Londra, amato da Lady Diana, per il clima familiare: Lorenzo e Mara Berni avevano portato a Enzo gli spaghetti, due volte al giorno, nella Harley Street Clinic, dove il chirurgo Donald Ross lo aveva operato al cuore».
Come nacque lo scoop dell’intervista con Gheddafi, girata nel 1986 poche ore prima del bombardamento su Tripoli e Bengasi ordinato da Ronald Reagan?
«Mi telefonò più volte un tale dottor Mentor Cioku. Credevo fosse un mitomane. Quando mi offrì di far intervistare il colonnello libico da Biagi, capii che non scherzava. Andammo. Nel congedarci, Gheddafi ci consigliò di ripartire subito e ci fece scortare in volo da due caccia, segno che sapeva dell’attacco imminente. Biagio Agnes, direttore generale della Rai, per prudenza bloccò la messa in onda dell’intervista. Una mortificazione per il servizio pubblico, a prescindere dallo spropositato valore di mercato che il colloquio esclusivo aveva in quel momento. Il direttore del Tg1, Albino Longhi, si dimise in segno di solidarietà».
E Biagi come la prese?
«Malissimo. Ma aveva un innato senso del rammendo. Sapeva che ci sono decisioni da rispettare anche quando non le condividi. Capitò la stessa cosa con l’intervista alla moglie di Mario Chiesa, stoppata dal dg Gianni Pasquarelli. Reagì solo quando il presidente Francesco Cossiga rinunciò all’ultimo momento a presentarsi in trasmissione. Allora Enzo decise di leggere le domande che avrebbe voluto porgli. Boom di ascolti».
È vero che fu lei, da direttore generale, a riportare Adriano Celentano in Rai?
«No. È vero che con il Molleggiato intavolai una laboriosa trattativa, naufragata quando mi espose la sua idea: “Voglio irrompere in studio a mio piacimento mentre è in onda il Tg1”».
Pazzia inaccettabile per un docente di apparati della comunicazione di massa.
«Non mi sono mai sentito un professore. In tanti anni d’insegnamento, è più quello che ho imparato dalle generazioni di dopodomani di quello che ho dato».
Perché rifugge Facebook e Twitter?
«Mantengo le distanze tipiche di coloro che sono passisti, per usare un linguaggio ciclistico, ma non passatisti. Sono stato il responsabile di Rai Click, uno dei primi esempi europei di convergenza tra informatica, telecomunicazioni e tv, realizzato d’intesa con Fastweb».
I giornali di carta hanno un futuro?
«Non conosco un solo mass media che sia scomparso. Le forme di comunicazione si evolvono, ma non muoiono».
Che cos’hanno in comune Rai e Tci?
«Una forte connessione. Nel 1953 i soci del Touring tornano ai livelli d’anteguerra: 210.000. Nel 1954 nasce la tv. Nel 1955 vede la luce la Fiat 600. Nel 1956 si posa la prima pietra dell’Autostrada del Sole. Nel 1959 l’Istat comincia a rilevare in modo sistematico i viaggi per vacanze e scopre che appena 11 italiani su 100 se li possono permettere. Fino al 1965 solo 4 su 100 sceglievano le ferie all’estero».
E oggi?
«Il turismo italiano vale 96 miliardi di euro, che salgono a 227 con l’indotto, il 13,1 per cento del Pil. È un settore che dà lavoro a 3,4 milioni di persone. Quanto alla Rai, controlla ancora il 35-40 per cento del mercato dei media, ma ormai ha perso il suo primato peculiare, perché oggi fa servizio pubblico anche La7».
Per le vacanze sceglie solo l’Italia?
«Amo il mare d’inverno e Lerici d’estate. Da giovane sciavo a Madesimo, dov’ero confinato per malattia. In viaggio di nozze andai a Santa Margherita Ligure. Ho un debole per la Costa Azzurra».
E in Rai nacque «L’albero azzurro».
«Era “L’albero”. Ma Bruno Munari mi consigliò: “Ci aggiunga un aggettivo”».
Sulla sua stagione da direttore generale, vi sono due scuole di pensiero: fu scelto da Prodi, fu fatto fuori da Prodi.
«Sono amico di Romano Prodi. Ma la verità è che chiesi al sottosegretario Enrico Micheli di continuare a occuparmi dei palinsesti. “Veramente tu saresti il candidato del governo per la nomina a dg”, obiettò. Poi, quando Franco Marini e Massimo D’Alema decisero di far cadere Prodi, da qualche parte dovevano pur cominciare... La cosa comica è che Pier Luigi Celli venne a chiedermi se doveva accettare di prendere il mio posto».
Silvio Berlusconi la corteggiava.
«Parlavo con Fedele Confalonieri e Gianni Letta, che avranno tutti i limiti di questo mondo ma non quello della testa. Berlusconi lo salutavo e basta».
Forse perché lei è tifoso dell’Inter.
«Sostenitore, non tifoso. Il vero interista si meraviglia quando l’Inter vince».
Qual era il segreto di Biagi?
«L’autorevolezza. Un 8 marzo la redazione avrebbe voluto che facessimo una puntata sulle donne. E invece noi scegliemmo come tema l’aborto».
Il programma che ha amato di più?
«“I dieci comandamenti all’italiana”. Riempì un buco del palinsesto con il cardinale Ersilio Tonini, la scenografia scabra di Vico Magistretti e 20 sedie. “Vi ringrazio anche a nome di Mosè”, ci disse papa Wojtyla. “Santità, non ne abbiamo né tolti né aggiunti”, rispose Enzo».
Vuole aggiungere l’undicesimo ora?
«Non farai nulla senza l’etica».