Weimar ieri e oggi, le viene la tentazione di accostare quell’esperienza così catastrofica alla nostra?
«Posto che la storia non si ripete, avverto lo stesso tanfo. Negli anni Venti e Trenta furono in tanti a pensare che quel che accadde non era affar loro e si è visto come è andata. Oggi c’è la stessa ottusa chiusura davanti ai drammi internazionali: non è affar mio, dice tanta gente».
Mentre è un affare di tutti noi?
«Siamo tutti nella stessa barca. Gli anni Venti, dopo il terremoto della prima guerra mondiale, culminarono nella grande crisi del 1929. L’Europa provò a uscirne attuando una sorta di keynesismo totalitario. Pensa che Hitler sarebbe mai andato al potere se la Germania non avesse avuto nel 1932 sei milioni di disoccupati, un fortissimo risentimento verso le nazioni vincitrici della guerra e l’esempio storico di Weimar in cui il denaro non valeva più nulla e la democrazia divorava se stessa?».
Intende dire che siamo nelle stesse condizioni di allora?
«Non lo penso, non vedo il pericolo di un fascismo risorgente. È vero che ci sono frange nostalgiche e violente che usano a man bassa rituali e simboli che si richiamano a quel mondo e che possono avere una presa sulla disperazione della gente. Ma il punto vero non è quello».
Quale sarebbe?
«La rottamazione delle vecchie famiglie partitiche ha favorito modelli politici plebiscitari. I quali, in ogni caso, devono tener conto dell’enorme volatilità elettorale. Questo vale per tutta l’Europa, ma in particolare per il sud, dove le ferite inferte alla stabilità democratica sono state più profonde».
Quando parla di più modelli plebiscitari cosa intende?
«È una constatazione: ma in Italia in questo momento vige una sorta di bi-populismo. Due forze antisistema che, per stare assieme, fanno sistema».
Che cosa è una democrazia plebiscitaria?
«Una forma di governo che assegna un ruolo trascurabile ai partiti e concentra il potere nelle mani di un capo. È una semplificazione ma rende l’idea».
Perché chiamarla ancora democrazia?
«È Max Weber a fornirci la prima definizione efficace. Per distinguerla da forme dittatoriali come il cesarismo o il bonapartismo. La democrazia plebiscitaria non prevede la presa del potere per via militare».
Può tuttavia provocare gli stessi effetti.
«Svuotare il parlamento delle sue funzioni, richiamandosi al popolo come destino, rendere irrilevanti i corpi intermedi, far tacere le opposizioni, fu il modo per porre le basi giuridiche del nazismo».
Giurista del Terzo Reich fu Carl Schmitt.
«Fu indiscutibilmente tale, i suoi testi lo provano».
Tutti?
«Alcuni».
Lei è uno dei pochi italiani che andò a trovarlo in Germania.
«È vero, mi congedò dicendomi: mi saluti Norberto Bobbio».
Si conoscevano?
«Erano entrambi studiosi di Hobbes. A Schmitt piacque molto il suo lavoro sul De Cive ».
Lei quando lo incontrò?
«Nel novembre del 1982. Mi accolse nella casa natia di Plettenberg, dove da anni si era ritirato. Passammo insieme un’intera giornata».
Quale fu l’occasione per vedervi?
«L’anno prima ero stato a Gottinga a trovare Gerhard Leibholz, uno dei più grandi giuristi del XX secolo. Era il cognato di Dietrich Bonhoeffer e autore di un libro molto importante sulla dissoluzione della democrazia liberale in Germania e la forma dello Stato autoritario, di cui curai la versione italiana. Parlammo a lungo di Schmitt e mi disse che non sarebbe stato male fargli visita».
E lei andò l’anno dopo.
«Sì, anche perché la rivista Quaderni costituzionali mi incaricò di fargli un’intervista».
Prima di riprendere questo racconto ci dica qualcosa di lei. È inglese?
«Sono nato a Udine. Passaporto inglese fino al 1972 quando ho preso la cittadinanza italiana».
Suo padre chi era?
«Un ufficiale inglese. Sposò mia madre nel 1947. Divorziarono nel 1953. Ho vissuto a lungo con lei e mia nonna, la quale prediligeva i luoghi di villeggiatura. Ho vissuto quattro anni a Cortina, ho fatto la maturità a Desenzano, università a Pavia e specializzazione a Firenze. A Pavia conobbi Mario Galizia e a Firenze Giuliano Amato. Entrambi importanti per la mia formazione. Concorso nel 1978 a Scienze politiche. Moro stava per essere rapito e Vittorio Bachelet sarebbe stato assassinato un paio di anni dopo dalle Br, sulla scalinata della facoltà, mentre conversava con la sua assistente Rosy Bindi. Anche il giuslavorista Massimo D’Antona, che era poche stanze più avanti della mia, fu ucciso alla fine degli anni ’90 dalle Br».
Cosa hanno rappresentato quelle morti?
«La parte più efferata e tragica della nostra storia: una scia di sangue che ha reso opaca la nostra democrazia».
A proposito di stanze: ho notato quella dedicata al fondo Costantino Mortati. Uno studioso tornato di moda grazie alla sua concezione sulla costituzione materiale.
«Mortati è stato un pilastro di questa facoltà. Mi sono a lungo occupato del suo pensiero».
Lo ha conosciuto?
«Verso la fine della sua vita, ormai malato non parlava più. È morto nel 1985 e il riferimento alla costituzione in senso materiale risale a un testo del 1940. Descrisse una “zona grigia” del diritto costituzionale in cui il politico e il giuridico si fronteggiano. Dalla sua visione realista si evidenzia che le forze che sono alla base dell’ordinamento giuridico ne condizionano l’interpretazione».
Fino al punto da stravolgerla o strumentalizzarla?
«No, altrimenti saremmo nella situazione che il più forte piega ai suoi voleri la Costituzione. Mortati non vuole politicizzare il diritto costituzionale, in realtà vuole fare esattamente il contrario: imbrigliare il mostro che convive nel politico».
In che modo?
«Giuridicizzando la politica, ossia ponendo degli scopi che vanno oltre gli interessi di parte. La politica è l’anguilla tenuta nella vasca, cioè nel quadro dei principi costituzionali».
Ma il “mostro” come lo chiama lei tende per sua natura a divorare ciò che incontra.
«Per questo il diritto è tale solo nell’uso legittimo della forza. Altrimenti tra le regole dello Stato e quelle di un clan mafioso non ci sarebbe differenza. La verità è che si può fare tutto con le baionette tranne che sedervisi sopra».
Mortati non si sognerebbe mai di dire, come fece Schmitt, il Führer è il diritto.
«No, nonostante considerasse interessante il suo pensiero».
Quando lei incontra Schmitt che uomo le viene incontro?
«Un signore molto vecchio, provato dalle sue vicende, che conservava intatto il fascino intellettuale. Mi parlò di Anima, la figlia che viveva in Spagna, dove lui stesso aveva vissuto per un certo periodo. Mi disse anche che le Ss lo avrebbero impiccato volentieri e che solo grazie a Göring riuscì a salvarsi».
Perché i nazisti avrebbero dovuto avercela con lui?
«Mi parlò del contrasto in seno al partito nazista dopo l’affare Röhm del 30 giungo 1934».
Cosa accadde quel giorno?
«Ci fu il regolamento di conti, per cui molti membri delle Sa furono assassinati. Anche il generale von Schleicher, al cui giro Schmitt apparteneva, fu ucciso».
Fu “la notte dei lunghi coltelli”.
«Fu l’epurazione brutale in seno al partito. Ordinata dallo stesso Hitler».
Subito dopo, Schmitt scrisse un articolo che sembrò una giustificazione di quell’eccidio.
«Fu il famoso articolo del luglio del 1934 con cui teorizzò la figura del Führer creatore o protettore del diritto. Perché lo fece? Beh, intanto lui non giustificò quell’azione ma, per così dire, la legalizzò. Non dimentichi che era un giurista».
Ma era anche un uomo spaventato.
«Tanto è vero che si paragonò a Benito Cereno, il protagonista dell’omonimo racconto di Melville: il comandante di una nave è fatto prigioniero dalla ciurma che si ribella. Metafora per dire che spesso si è impotenti di fronte agli eventi della storia. Cosa posso fare io davanti al brutale dilagare della forza? Posso soccombere, scegliere l’esilio, restare a guardare».
Poteva opporsi.
«Certo, dopo si può dire. Qualcuno lo accusò di vigliaccheria».
Schmitt le parlò del suo antisemitismo?
«Non ce n’era bisogno, la sua posizione era nota. Però spese parole di ammirazione per il rabbino e filosofo Jacob Taubes, che tra l’altro si era occupato del suo pensiero».
Dall’Italia Schmitt ha ricevuto un’attenzione particolare. Perché?
«Negli anni Trenta furono Arnaldo Volpicelli e Delio Cantimori a occuparsene e credo sia dipeso dal fatto che nazismo e fascismo si scambiassero un po’ di favori intellettuali. Cantimori non era ancora l’autorevole intellettuale comunista».
Poi ci fu la riscoperta a sinistra: Tronti, Cacciari, Marramao.
«Erano infatuati dalla concezione del politico come amico-nemico. La verità è che fu Gianfranco Miglio nella seconda metà degli anni Sessanta a ritirarlo fuori. Nel 1964, per l’anno accademico della Cattolica, Miglio tenne una prolusione ferocemente antipartitica. Sparò ad alzo zero contro il nascente centro sinistra. È in questo ambito che si scoprì il suo interesse per Schmitt».
Per lei Schmitt chi è?
«Prosatore fantastico. Leggerlo equivale a sciare sulla neve fresca. Per il resto, uno studioso policromo: giurista, storico, filosofo, letterato. Alla fine il suo è puro situazionismo. Crede che avrebbe mai sposato una ballerina se non fosse stato un situazionista?».
Lei è sposato?
«Storie importanti, certo, ma niente matrimoni. Almeno finora. Sono figlio di due divorziati. C’è anche un senso materiale della vita che espone i vincoli tra le persone all’usura. Tutto sta ad averne consapevolezza».