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 2019  maggio 25 Sabato calendario

Biografia di Jeff Koons raccontata da lui stesso

L’artista più pagato del mondo è anche un professionista delle interviste. Se Jeff Koons decide, finalmente, di concedere più di un’ora del suo tempo lo fa sul serio. Spegne il cellulare e si scusa se qualcuno entra, all’improvviso, nello studio newyorchese. Ripete più volte il nome del suo interlocutore per stabilire un contatto cordiale. Due giorni dopo richiama, persino, per fare precisazioni sulla tradizione che lega la sua famiglia al Partito democratico. E per dire che con David Hockney, il grande vecchio della pittura, appena retrocesso a maestro vivente più quotato numero due, non c’è alcuna rivalità: «Amo le sue opere, abbiamo trascorso del tempo insieme al Pompidou di Parigi, a Bilbao, a New York. Ci siamo divertiti». Chiede dell’Italia, della Biennale di Venezia: «Voglio andarci in estate con i bambini. Per loro è uno spasso sperimentare l’arte contemporanea». Di figli ne ha otto: sei dalla seconda moglie, Justine Wheeler, e altri due, ormai adulti, da relazioni precedenti. Incluso il matrimonio con Ilona Staller, sua ex musa, protagonista con lui all’inizio degli anni Novanta della serie Made in Heaven con foto e sculture sessualmente molto esplicite. E poi di una battaglia legale finita sui tabloid di tutto il mondo. Su Cicciolina l’accordo siglato prima dell’intervista prevede di non fare domande. Intanto, Rabbit, il coniglietto d’acciaio battuto all’asta da Christie’s il 15 maggio per 91,1 milioni di dollari, ha spazzato via Koons dalle pagine del gossip e lo ha consegnato a quelle della storia. L’ex ragazzo — oggi ha 64 anni — venuto dalla Pennsylvania come Andy Warhol è diventato l’artista vivente più costoso di sempre. La consacrazione si completa in questi giorni con la mostra a Città del Messico Appearance Stripped Bare, a cura di Massimiliano Gioni ( al Museo Jumex, fino al 29 settembre), dove, per la prima volta, le sculture luccicanti con i cagnolini, Hulk, i cuori e le Veneri, oggetti del desiderio del nuovo collezionismo milionario, sono messe accanto ai ready-made del mito Marcel Duchamp: 12 sono arrivati dalla Galleria Nazionale di Roma.

Mr Koons, come spiega il record di Rabbit?
«Posso spiegare che cosa è Rabbit: un oggetto lunare e un gioco di specchi. Lo guardi e al tempo stesso ti riflette. Mi piace l’idea che lo spettatore possa entrare nell’opera, che ne sia catturato. Per molte mie sculture ho scelto l’acciaio inossidabile perché ha una qualità quasi metafisica, immagazzina e restituisce luce».
Va bene, ma che effetto le fa essere il re del mercato dell’arte?
«Mi crede se le dico che non ci penso? Forse dovrei rifletterci, invece. A me però interessa generare sensazioni con le mie opere. Sorprendere ogni volta, creare attesa e partecipazione. L’arte ha senso se riesce a portare lo spettatore da un’altra parte, se sprigiona le potenzialità di chi realizza l’opera e di chi la guarda. Il vero valore è questo. Quello economico viene in un secondo momento. Dopo aver visto le opere di Manet o di Duchamp, sono diventato un’altra persona. Spero che possa accadere anche a chi vede le mie. Quando le concepisco, non penso mai alla vendita. Il mercato dell’arte è simile a qualsiasi altro mercato: ha le sue logiche. Ma, davvero, non mi interessa».
È vero che ha cominciato esponendo nella vetrina del negozio di suo padre?
«Sì, Henry J. Koons Interiors, a York, Pennsylvania. Mio padre vendeva mobili e arredi per interni. Da lui ho imparato l’arte di allestire una vetrina, il gusto per i colori e i materiali. Grazie ai miei genitori ho cominciato a studiare disegno all’età di sette anni. Sono stati loro i miei primi sostenitori: mi hanno spinto a completare gli studi all’Art Institute di Chicago, dove c’era un ambiente interessantissimo e dove ho scoperto le avanguardie del Novecento, il dadaismo e i ready-made».
Quando è arrivato a New York?
«Era l’ottobre del 1976, mi ero diplomato da un po’. Lavoravo a Chicago come aiutante nell’allestimento delle mostre. Cominciavo ad annoiarmi. Una sera, alla radio, il disc jockey mette su l’intero LpHorses di Patti Smith. Racconta della nuova scena newyorchese, della musica, dei poeti, dei club, delle gallerie d’arte. Per me è una folgorazione. Prendo e me ne vado a New York per due settimane. Poi torno a casa e — il tempo di raccogliere le mie cose — mi trasferisco definitivamente nei primi giorni del 1977».
Finisce a lavorare alla biglietteria del MoMA.
«Sì, all’inizio era un po’ frustrante perché avrei voluto fare il preparatore di mostre come a Chicago. E invece vendevo biglietti, tessere di abbonamento e davo informazioni al pubblico. Ma, nelle pause, il museo era tutto per me. Studiavo la collezione. Così ho scoperto Guernica e poi Duchamp, che ha dato una dignità artistica agli oggetti della vita comune con i suoi ready-made. Volevo entrare in relazione con la sua arte. Al MoMA ho capito davvero quale fosse la mia strada. È cominciato tutto lì».
A proposito di oggetti di uso comune, per la sua prima mostra, nel 1980, al New Museum, espone degli aspirapolvere in vetrina. Ma come le è venuto in mente?
«A tre anni, ho gettato nel water l’aspirapolvere di mia madre. Ne combinavo di cose. Ma gli aspirapolvere mi interessavano anche perché, a guardarli bene, sono oggetti ambigui e antropomorfi. Hanno forme maschili e femminili, un apparato interno e un rivestimento esterno. Rimandano al corpo umano e alle sue funzioni».
Più tardi, palloncini, giocattoli, fiori gonfiabili sono diventati i soggetti delle sue sculture più note e preziose. Ma lei non ama che le si definisca kitsch.
«Non mi piace il concetto di kitsch perché contiene in sé un giudizio. Chi utilizza questa categoria è portato a guardare dall’alto in basso le cose che ha davanti. A me non interessa costruire una gerarchia. Tutto può diventare arte. Non esistono una cultura alta e una cultura bassa. Voglio che le persone riconoscano gli oggetti della loro esperienza quotidiana nelle mie opere. Prendo quegli oggetti e li faccio diventare migliori, perfetti e luccicanti attraverso le mie sculture».

Lei ha detto che Michael Jackson è la sua Pietà.
«Nel momento in cui lavoravo alla sua scultura, Michael era un idolo. In quell’opera lui e la sua scimmia Bubbles formano un triangolo perfetto proprio come nella Banality, in cui ho inserito anche Jackson, alla fine degli anni Ottanta, ho scelto volutamente un vocabolario che tutti potessero capire. Perché il mio scopo è quello di realizzare un’arte inclusiva. Chi la guarda deve sentirsi accettato. Deve poter comprendere che il bagaglio di esperienze che lo ha portato fin lì ha un senso, non è di serie B. Per me una scultura di Braccio di Ferro ha la stessa dignità di una statua medievale: è la cultura di riferimento che cambia».
Ha mai incontrato Michael Jackson?
«Non era destino, evidentemente. Ogni volta accadeva qualcosa per cui l’appuntamento veniva rimandato. Si ammalava, cancellava il concerto al Madison Square Garden di New York. Diventava sempre difficile. Alla fine, mi sono un po’ stancato di inseguirlo. Certo, mi sarebbe piaciuto molto conoscerlo. Mi è stato più facile incontrare Salvador Dalí. Ero giovane, gli ho fatto la posta al St. Regis di New York. Lui aveva una mostra in una galleria, mi ha invitato a vederla. Abbiamo parlato di arte, si è arricciato i baffi e si è messo in posa davanti alle sue opere per me. Conservo ancora la foto».
L’accusano di non realizzare le opere con le sue mani.
«So scolpire e so dipingere. Ma non è questo il punto. Puoi avere le migliori competenze, ma senza una visione non vai da nessuna parte. È il progetto che conta. Mio padre partiva lavorando sulla carta millimetrata, conosceva le proporzioni di ogni cosa. Le mie opere hanno bisogno di una lavorazione molto lunga e complessa e di più tecnologie insieme. Non potrebbero essere realizzate da una persona sola, non ha senso. Con me adesso a New York lavorano in sessanta: ingegneri, programmatori, pittori, manager. Spesso mi avvalgo di centri di produzione in America, Germania, Italia».
La sua è un’industria, più che una bottega rinascimentale vecchio stile.
«Non mi piace l’idea di fabbrica. Preferisco il termine studio, è più romantico. Andy Warhol amava il concetto di Factory, ma era una provocazione: aveva fondato la Pop Art! A me la parte distributiva non interessa. Voglio concentrarmi sul mio lavoro: qui si comunicano idee. L’aspetto economico è secondario. Il vero lavoro inizia dalle ricerche che faccio a casa».
L’abitudine di prendere oggetti e immagini da rielaborare è tipica delle avanguardie del Novecento, di Duchamp e del dadaismo. Lo fa anche lei, ma è stato condannato per plagio a causa della scultura Fait d’Hiver…
«Ho sempre pensato all’arte come a un ambiente aperto e accessibile. Ogni opera fa riferimento a un’altra. L’accessibilità è parte del linguaggio dell’arte. Accade sin dai fotomontaggi dadaisti, da Picasso, Braque e Duchamp. Il mio è un dialogo con le cose che vedo. Non c’è dolo. Non ho mai pensato di appropriarmi delle idee altrui. Se avessi creduto di dover chiedere il permesso per rielaborare un’immagine, lo avrei fatto».
In mostra a Città del Messico, c’è anche una sua rielaborazione della Gioconda a cui giustappone una sfera riflettente blu.
«La Monna Lisa possiede una sua vita interiore. Con il mio amico Martin Kemp, grande studioso di Leonardo, ne abbiamo parlato tanto: anche lui non sa capire da dove venga il potere di quel quadro. Per me nasconde un dinamismo che è frutto degli studi di Leonardo da Vinci sull’acqua».
Prima che sparisse nel nulla, è riuscito a vedere il Salvator Mundi attribuito a Leonardo, l’opera più costosa del mondo: 450,3 milioni di dollari?
«L’ho visto prima e anche dopo il restauro definitivo. Il mistero sul suo destino ne aumenta il fascino. Ma più di tutto mi attrae quella sfera di vetro riflettente: è lo stesso concetto che ho ripreso nella mia serie Gazing Ball, in cui, come ho fatto con Monna Lisa, ho applicato delle sfere di vetro sulle copie di capolavori del passato. Il riflesso e i giochi di luce, come in Rabbit, mi appassionano ancora».
Com’è una giornata tipo dell’artista più pagato del mondo?
«Sono un semplice family man, un padre di famiglia. Con Justine stiamo insieme ormai da ventiquattro anni. Mi sveglio alle 7, facciamo colazione, porto i bambini a scuola e per le 9.30 arrivo allo studio. Se il weekend non ho progetti di lavoro o viaggi in agenda, guardo il baseball, visito un museo. Ho una palestra e cerco di tenermi in forma perché ho ancora dei figli piccoli… tutto qui».
Che libro ha sul comodino?
«Accidental Presidents di Jared Cohen, un saggio sugli otto presidenti americani che, da vice, si sono trovati per caso e improvvisamente alla guida della Casa Bianca. È una riflessione storica sulla responsabilità e sulla prospettiva politica che, di riflesso, parla anche al mondo di oggi».
Nel 2016 ha appoggiato la campagna elettorale di Hillary Clinton.
«La mia famiglia è sempre stata democratica. A cominciare da mio nonno tesoriere cittadino a York. Ricordo che da bambino mi portarono in visita sulla tomba di John Kennedy».
In una sua opera, The New Jeff Koons, ha ripreso una sua foto scattata a cinque anni: la si vede sorridente con il suo album e i colori. Che cosa è rimasto di quel bambino?
«Quel bambino ha assecondato le sue potenzialità e si è trasformato. Credo nel concetto del divenire: la vita è un viaggio che continua e che ci cambia».
Ora che sembra essere così saggio e pacificato, che effetto le fa rivedere le opere in cui mise letteralmente a nudo la sua vita intima, come nella serie Made in Heaven con Cicciolina? Rimpiange di averlo fatto?
«Non rimpiango assolutamente nulla. Sono orgoglioso di tutti i lavori che ho fatto. Negli anni ho imparato così tante cose… In quel momento volevo comunicare l’idea di accettare il proprio corpo così com’è, senza vergogna. Tutta la mia arte, alla fine, ha lo scopo di contribuire all’accettazione di sé».