la Repubblica, 25 maggio 2019
De Rossi e gli addii impreparati dei campioni
L’ultimo protagonista di un’Italia bella e vincente lascia la Serie A. Daniele De Rossi, 36 anni, 18 stagioni con la Roma, 1.192 minuti in campo in A nel 2018-2019, campione del mondo a Berlino 2006. L’ultimo azzurro di una generazione che ha giocato sempre nella stessa casa e che fatica a farsi da parte. Ma perché nello sport è così difficile la cerimonia degli addii? In una società professionistica entrate ed uscite, anche umane, dovrebbero avere protocolli collaudati. E non essere pratiche sporche da sbrigare all’ultimo, in una contrattazione affannosa, nell’imbarazzo di chi lascia e di chi è lasciato. E non sa come dirlo. È la sindrome di Dorian Gray ad ostacolare la civiltà del grande addio? Michel Platini ha abbandonato il calcio a 32 anni, tra le altre cose non gli andava più di dover chiedere il permesso a Trapattoni di attraversare la strada per andare a comprare i giornali in ritiro. Pelé in Brasile ha smesso a 34, per andare poi a giocare due stagioni con i Cosmos in America, anche perché non aveva più un soldo (derubato dal manager). Allora il pallone era una passione ben retribuita, oggi è una professione con molta dedizione. E con un ingaggio molto poco sostituibile e rimpiazzabile. Ma è anche difficile trovare altri scivoli perché un atleta, soprattutto quello di successo, non pensa mai al dopo, né è allenato a farlo. Nessuno si o ti prepara a quel momento, a quel taglio, a quella improvvisa invisibilità. Non è affare della società sportiva preoccuparsi se un dio del pallone non ha più la forza di dire messa. In più non essendo i campioni dei nullatenenti al pubblico non interessa cosa faranno nel futuro e se riusciranno a ricollocarsi. Anzi, diciamo pure che dopo l’amore, l’emozione, la commozione, non c’è pietà: hanno guadagnato molto, sono dei privilegiati, che se la sbrighino loro. E più sono grandi vecchi, più il club li vive come potenziali nemici. Hanno in mano il cuore della città, ne hanno interpretato il battito, sanno come farlo pulsare. Bette Davis, 2 premi Oscar, nel ’62 mise su Variety questo annuncio di lavoro: «Madre di tre figli, 10, 11 e 15, divorziata, americana. Trent’ anni di esperienza come attrice di cinema. Ancora in grado di muoversi e più affabile di quanto si racconti. Desidera impiego stabile a Hollywood, ha già avuto Broadway. Referenze se richieste». Aveva 54 anni. Oggi nel cinema lavorano tipi come Clint Eastwood, 88 anni, Michael Caine, 86, Jane Fonda, 81.
In Serie A sono tesserati 1.200 giocatori, più 548 in B, più 1.091 C. È un bel capitale umano. Non tutti sono Buffon o Totti, De Rossi o Barzagli (che quattro giorni dopo l’addio ha dato la maturità), forse qualcuno lo diventerà, ma tutti un giorno dovranno separarsi dal gioco e forse anche dall’essere stati bandiera e simbolo della loro città. Per passare dal grande tutto al grande niente. Perché nulla rimpiazza quel tipo di energica felicità. Quella fine avverrà in un gelo di tristezza, rinfacciandosi vigliaccherie e passi falsi, o con un’accettazione più serena e meno drammatica che col tempo tutto se ne va e che iniziare a parlare di «dopo», magari su strade non più allineate, non è una colpa da nascondere, ma una realtà da affrontare con eleganza, senza brutali silenzi?
È difficile continuare a riempire una bella vita. In Australia al campione che lascia si affianca un team, che lo invita a tenere un diario, a riprendere gli studi, a mantenersi in forma fisica, a trovare dieta e nuovi interessi, e a piacersi. L’Aic, l’associazione italiana calciatori, ha inaugurato corsi di formazione e di laurea per il post-carriera, e molti di quelli che la frequentano, racconta il presidente Damiano Tommasi, confessano: «Ci avessi pensato prima».
Fare il dio che tramonta non è per tutti. La professione campione ha una scadenza. Saremo tutti De Rossi nell’ultima partita, ma sarebbe ora che lo sport italiano provasse a giocare anche fuori dal campo.