La Stampa, 24 maggio 2019
Intervista a Glenn Lowry, direttore del Moma
Glenn Lowry, 66 anni, occhi azzurri incorniciati da occhiali tartarugati, è dal 1995 direttore del Moma, il museo d’arte moderna di New York, e sta per iniziare un’ambiziosa ristrutturazione della struttura, che sarà inaugurata a ottobre.
In tanti anni che idea si è fatto su come deve essere un museo e quali cambiamenti vuole introdurre?
«I musei, in particolare quelli d’arte moderna e contemporanea, cambiano nel tempo e non è detto che l’idea migliore di oggi funzioni anche domani. Il mio tentativo è di creare un luogo interattivo dove i nostri differenti tipi di pubblico si possano ritrovare. Mi piacerebbe cambiare in modo più rilassante e invitante gli spazi esistenti e inaugurarne di nuovi come le gallerie e lo Studio».
A proposito di quest’ultimo, si può dire che il Moma sarà più dedito all’educazione dei visitatori?
«Dipende da cosa intendiamo per educazione. Il nuovo museo coinvolgerà di più le persone. Vorrei che si costruisse una relazione tra i visitatori e il Moma, una maggiore partecipazione, e per questo ci saranno più momenti di educazione e anche uno spazio, chiamato “Platform”, che inviterà i visitatori a conoscersi tra loro».
Una specie di social network dal vivo?
«Esatto, non dimentichiamo che il Moma è anche un luogo di divertimento, dove non bisogna fare altro che passare il tempo a guardare cose interessanti».
È vero che un altro proposito della ristrutturazione è di dare più spazio all’arte femminile e delle minoranze?
«Sì, è un grande sforzo necessario. I musei dagli anni 70 a oggi si sono focalizzati su artisti europei, americani, soprattutto uomini, mentre da un decennio sappiamo che ci sono tante artiste di varie provenienze che non sono state prese in considerazione».
Il Moma ha un archivio di 300 mila volumi di storia dell’arte: come si traduce questo patrimonio librario, oltre a quello artistico, nell’era digitale?
«Due anni fa abbiamo lanciato un programma per digitalizzare tutte le mostre e stiamo cercando di fare lo stesso con il resto. Digitale e reale possono essere dimensioni parallele e proprio per questo il nuovo museo enfatizzerà le esperienze dirette dell’arte e di scambio con gli altri».
Quanto costa la ristrutturazione?
«450 milioni di dollari».
Tutti da privati, come da tradizione americana?
«Negli Stati Uniti non esiste il lusso del finanziamento pubblico. Il Moma ha 50 fiduciari molto generosi che avvertono questa responsabilità. Ma non c’è un sistema migliore di un altro. Personalmente penso che lo Stato dovrebbe avere un ruolo nella cultura, perché si tratta di un bene pubblico».
Com’è cambiata la New York artistica dal 1995?
«Da un lato continua a essere una calamita per gli artisti, che non stanno più solo a Soho ma in ogni quartiere della città, perfino nel Bronx, da un altro sono cresciute Los Angeles, San Francisco, Chicago e Boston. La scena dell’arte è più distribuita e questo vale in tutto il mondo».
I suoi artisti preferiti?
«Tantissimi e cambiano, ma Cézanne è una pietra miliare. Poi amo l’indiana Nalini Malani, il venezuelano Gego, Paul Bell, David Hammons, Faith Ringgold. Ogni volta che giro per il museo trovo qualche dettaglio nuovo, come mi è successo con la mostra della brasiliana Tarsila do Amaral».
Il quadro da non perdere al Moma?
«La risposta ovvia è Les demoiselles d’Avignon di Picasso del 1907, che influenza tutto il secolo, ma One: Number 31 di Pollock o i Barattoli di Warhol non sono da meno».
È vero che vive con sua moglie nella torre del museo?
«Sì, e spero di continuare. Mi spiego: sono in giro da una settimana, non si sa mai… Lo scoprirò quando torno».