la Repubblica, 24 maggio 2019
Boscimani ed esquimesi, sconfitti dalla modernità
I boscimani lo chiamano “il tempo della iena”, l’animale più odiato. Chi ne era preda perdeva forza, equilibrio, perfino dignità. Così accadde a una donna boscimana che lasciò la sua foresta per prostituirsi in città. Non aveva intenzione di farlo. Le era morto il marito. Le erano stati tolti i figli. Si spogliava per un boccone di cibo. Fu derisa. Insultata. E alla fine, si tolse i vestiti e andò in giro nuda. Aveva deciso di morire. È una storia straziante di sradicamento e violenza quella de Il cuore del cacciatore (Adelphi), una straordinaria e terribile epopea scritta da Laurens van der Post, sul popolo più antico della terra. Vale la pena metterlo accanto a Gli ultimi re di Thule (Jaca Book), uno dei racconti più belli (insieme a quelli di Rasmussen) sugli esquimesi, scritto da Jean Malaurie, tra i più celebri studiosi delle aree polari.
Boscimani ed esquimesi non hanno molto in comune: polarità di caldo e freddo, di territori arsi e lussureggianti e di distese ghiacciate e opache. Ciò che condividono è la caccia, la fatica, i rituali (sebbene diversi) e la convinzione di essere popoli sradicati dalle loro vite. Il commercio, l’evangelizzazione, le spedizioni europee hanno creato un disordine latente: le tribù si disgregano, i villaggi immiseriscono: lo spirito di solidarietà ha ceduto a una logica mercantile e individualista.
Ci fu un momento in cui gli esquimesi conobbero e praticarono il tempo dell’orso. Ne avevano interiorizzato le movenze, l’astuzia e la potenza. Il massimo della caccia era essere orso. Pensare, vivere, agire come un orso. Non era un atto di volontà, ma di mimetismo che solo gli spiriti benigni potevano agevolare. Al contempo, a distanze abissali, gruppi di boscimani coprivano centinaia di chilometri, dalle terre meno ospitali e aride a quelle che rappresentavano la sopravvivenza. La tecnica di spostamento era semplice quanto efficace. Occorreva seguire i fulmini. Uomini e animali guardavano ai luminosi presagi del cielo e ne assecondavano il corso. I lampi erano la luce che li avrebbero condotti verso la pioggia, ossia la salvezza. Come la bussola per il marinaio.
Quei gruppi di nomadi possedevano una fede immensa nel deserto e nelle loro capacità di far fronte ai pericoli. Potevano imbattersi in animali temibili come il serpente o il leone, ma altresì nell’antilope o nello struzzo,cioè in animali cacciabili. La leggenda boscimana voleva che coloro che cacciavano in origine fossero le stelle. I suoni che le stelle emettevano si trasformavano in nomi e in linguaggio udibili da coloro che designavano i protagonisti della caccia. Fu così che in ogni autentico cacciatore una stella prese il posto del cuore. Nella magia innocente di questa visione non c’è distinzione tra uomo e animale. Le stelle potevano deporsi nel cuore del leone.
Per il boscimano tutto era movimento: seguire le stelle, i lampi, il vento, gli odori del deserto, era il modo di partecipare al senso della vita. E quando fu portato via e privato della libertà di muoversi la vita si spense. Il Ventesimo secolo gli fu fatale. Bastò la nostra vicinanza perché un contagio radioattivo producesse una letale leucemia nel suo spirito. Qualcosa di simile accadde agli esquimesi con la disgregazione della loro società tradizionale. Il commercio, che crebbe dopo le prime spedizioni, fu una rivoluzione pari a quella determinata dal cristianesimo. La moltiplicazione di nuovi bisogni diede vita a un uomo nuovo: individualista, solitario, incline più al guadagno che al rapporto solidale.
Thule, su cui si concentra il grande racconto di Malaurie, è situata a nord est della Groenlandia. Luogo impervio, venne raggiunto da Knud Rasmussen nel 1909. Fu lui a dargli il poetico nome di Thule, innescando le prime fantasie mitolog iche. Al mito avevano contribuito Pitea, Antonio Diogene, Virgilio che parla di una imprecisata terra, approdo ideale per l’ultimo viaggio. Teosofi e cultori dell’occulto videro in quel lembo ghiacciato le origini della civiltà, quell’età dell’oro denominata iperborea: un regno dove il sole sorgeva e tramontava una volta l’anno. I nazisti si impadronirono delle simbologie, facendo di Thule un luogo esoterico per la rinascita della razza pura. Deliri che oggi renderebbero felici i signori di CasaPound.
Gli ultimi re di Thule furono esquimesi. Inuit dalle facce rotonde e i neri capelli gelatinosi, forniti di slitte, di cani e di arpioni. Abitavano negli igloo, costruzioni di neve e torba, isolati dal mondo, ma con una straordinaria vita comunitaria regolata dall’ angaqoq, lo sciamano che nel rito di evocazione restava nascosto dietro una pelle di foca. L’ Anga era colui che viene prima, in grado di parlare con i morti e i grandi antenati. L’ Anga era la legge non scritta, il linguaggio sciamanico segreto come il suono delle stelle per i boscimani.
Come i boscimani, anche gli esquimesi divennero fenomeni da esposizione. Sei di loro, patetici King Kong, nel 1897 furono portati negli Stati Uniti. Quattro morirono di tubercolosi e le loro ossa si trovano al Museo di Storia Naturale. Dei due sopravvissuti, uno perì di morte violenta, solo l’ultimo sopravvisse. Anch’essi, come la donna boscimana, vissero il tempo della iena: il tempo dell’oscurità e del degrado nonché della tracotanza della mente occidentale.
Quei popoli vivevano nel passaggio continuo dalla vita reale al sogno, perché il sogno custodiva la meraviglia e la vita reale lo destava. Forse una parola riassume la loro storia più intima: presentimento. Ne parla, magistralmente, Elias Canetti in Massa e potere, quando nota che essi avvertivano nella cecità dei sensi qualcosa che sarebbe accaduto: presentivano il fruscio dell’invisibile che avanza, rispetto al quale ogni persona si esponeva alla metamorfosi. Quella successione di eventi impalpabili si è persa. Non sentiamo il rumore delle cose lontane. Non c’è più alcuna intimità con il remoto, men che mai con il prossimo. Le nostre paure non avvertono più il vero pericolo, perché anche noi siamo preda del tempo della iena.